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Unità: Ricerca, ultima fermata

Pietro Greco

06/04/2008
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l'Unità

Lo ripete spesso il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano: se l’Italia non vuole ipotecare il suo futuro, la ricerca scientifica e l’innovazione tecnologica devono cessare di essere una importante questione settoriale e devono diventare una grande questione nazionale. Un problema generale del paese. Una priorità assoluta della politica economica e sociale. La chiave - l’unica che abbiamo - per uscire dalla condizioni di declino economico (ma anche culturale e sociale) e avviare lo sviluppo (sostenibile) dell’Italia.
È questo il tema di fondo del manifesto, che non a caso è anche un appello, firmato da Rita Levi Montalcini, Carlo Bernardini, Margherita Hack, Marcello De Cecco e da ben 1.240 altri ricercatori, noti e meno noti, giovani e meno giovani, lanciato dall’Osservatorio Ricerca e che costituisce la base dell’incontro «Il futuro ipotecato! Come se ne esce?» (che si terrà domani 7 aprile dalle 9.30 alle 14.00 a Roma, a Palazzo Marini in Via del Pozzetto 158) con cui la comunità scientifica chiederà ai rappresentanti dei vari partiti politici che si presentano alle elezioni di assumere la consapevolezza culturale della posta in gioco e, di conseguenza, precisi impegni politici da realizzare nella prossima legislatura.
L’appello parte da un’analisi sincera. Da quasi vent’anni l’Italia è in una fase di declino relativo. Le nostre performance economiche peggiorano costantemente rispetto agli altri paesi europei, oltre che rispetto ad altri Paesi sia a economia matura che a economia emergente. La nostra ricchezza aumenta meno che negli altri paesi, la nostra occupazione (soprattutto quella femminile) è inferiore, la produttività pure. La competitività del paese come sistema è molto bassa e tende a scivolare sempre più giù. Ma la crisi non è solo economica. È anche sociale: la disuguaglianza nel nostro paese tendono a crescere; gli stipendi sono più bassi che nel resto d’Europa; si fatica ad arrivare alla quarta e, spesso, alla terza settimana. Ed è anche ecologica: non a caso siamo tra i paesi europei che fanno più fatica a rispettare lo spirito e la lettera di Kyoto; con un tasso elevatissimo di abusivismo edilizio e di distruzione del paesaggio; che a Napoli - ma non solo a Napoli - non riesce a “chiudere il cerchio” dei rifiuti e si ritrova ma monnezza per strada e i veleni nei campi.
Da dove nasce questa congerie di difficoltà che definiamo declino del Paese? Beh, nasce soprattutto dalla specializzazione produttiva del nostro sistema produttivo. Produciamo pochi beni e servizi ad alto tasso di conoscenza aggiunto. Ovvero produciamo molto poco di quei beni e di quei servizi fondati sull’innovazione che sono il motore dell'economia nell'era della conoscenza. Il mondo, là fuori, è cambiato: e noi non ce ne siamo accorti. Quindi cresciamo meno degli altri; le nostre imprese richiedono lavoro meno qualificato degli altri e, di conseguenza, pagano salari più bassi; abbiamo meno lavoro e abbiamo più difficoltà a rispettare l’ambiente. Più in generale: la nostra scarsa capacità di produrre reale innovazione rende stanca la nostra società, quasi rassegnata.
È contro questa cultura della rassegnazione al declino che, dunque, si mobilità la comunità scientifica. Non per chiedere interventi settoriali (pur necessari). Ma per porre un problema generale al paese. Anzi, il problema più generale: come reagire al declino e alla cultura del declino.
Beh, qualsiasi ricetta operativa passa attraverso la piena consapevolezza dell’esistenza del problema. Quella consapevolezza che il Presidente Giorgio Napolitano ha. Ma che i partiti politici non hanno. E, infatti, questo tema decisivo risulta clamorosamente assente dalla campagna elettorale. E la prima domanda che lunedì la comunità scientifica porrà ai rappresentanti dei vari partiti che si presentano alle elezioni è proprio questa: intendete assumere piena consapevolezza che il mondo sta cambiando (anzi è già cambiato), che stiamo entrando nella società e nell’economia della conoscenza e che noi non possiamo restarne fuori se non vogliamo ipotecare il nostro futuro?
Dalla risposta, speriamo positiva, a questa domanda generale derivano a cascata le risposte operative. Che riguardano sia il sostegno alla ricerca pubblica (e all’alta formazione) che allo sviluppo tecnologico delle imprese. Il sostegno alla ricerca pubblica passa, a sua volta, sia attraverso un netto aumento delle risorse, umane e finanziarie, sia attraverso una politica fondata sul rispetto dell’autonomia della ricerca e sul riconoscimento del merito attraverso gli strumenti della valutazione obiettiva. Il sostegno all’innovazione tecnologica passa attraverso una serie di iniziative fiscali, finanziarie, culturali che incentivino le imprese ad accettare la sfida della conoscenza e consentano al sistema Paese di modificare la propria specializzazione produttiva.
Non sono scelte né semplici né indolori. L’impresa è titanica. Ma il Paese non ha altra scelta. E le forze politiche hanno il dovere di tentare. Ecco perché quella che porrà lunedì la comunità scientifica a Roma non è una questione settoriale che riguarda poche decine di migliaia di persone, ma la madre di tutte le domande: vogliamo rassegnarci o vogliamo reagire al declino?


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