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Unità: Ricerca: meno provinciali, più europei

Ieri il Parlamento europeo ha approvato il Settimo Programma Quadro (FP7) che regolerà la ricerca scientifica e tecnologica dell'Unione

16/06/2006
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l'Unità

Pietro Greco

Ieri il Parlamento europeo ha approvato il Settimo Programma Quadro (FP7) che regolerà la ricerca scientifica e tecnologica dell'Unione per sette anni, dal 2007 al 2013, con un budget complessivo di 50,5 miliardi di euro. Non è un è progetto settoriale. Non riguarda solo il milione di ricercatori sparsi in 25 paesi. È un progetto generale. Che riguarda direttamente tutti i 455 milioni di abitanti dell'Unione. Perché FP7 è il biglietto che l'Europa sta staccando per cercare di entrare da protagonista assoluta nella società e, quindi, nell'economia della conoscenza.

Questa almeno era l'intenzione della Commissione Prodi quando ha progettato il Settimo Programma Quadro, assegnandogli un budget di 72,7 miliardi di euro e un compito: creare uno spazio europeo della ricerca scientifica e dello sviluppo tecnologico che non fosse la semplice somma di 25 frammentate politiche nazionali. Il valore strategico assoluto per l'Europa della ricerca scientifica e dello sviluppo tecnologico è stato riconosciuto a Lisbona già nel 2000 (dobbiamo diventare leader dell'economia della conoscenza, se non vogliamo diventare subalterni di altre regioni del mondo). Gli strumenti per raggiungere questo obiettivo sono stati indicati dal Consiglio europeo di Barcellona già nel 2002: portare gli investimenti in ricerca dell'Unione dal 2% al 3% entro il 2010, per recuperare il terreno rispetto a Stati Uniti e Giappone e per non farsi superare dai paesi emergenti (Cina, India e gli altri dinamici paesi dell'Asia che affaccia sul pacifico).

Purtroppo il valore strategico del Settimo Programma Quadro è stato seriamente minato da alcuni egoismi nazionali (in primo luogo della Gran Bretagna) che il 17 dicembre dello scorso anno hanno portato a un taglio del 15% del bilancio comunitario (1,06% del Prodotto interno lordo dell'Unione, contro l'1,24% proposto dalla Commissione Prodi). E infatti non solo il budget di FP7 arriva oggi in Parlamento a Strasburgo ridotto di quasi il 20% rispetto alla proposta originaria. Ma l'idea di uno «spazio europeo della ricerca», lanciata anni fa da Antonio Ruberti, ne esce, ancora una volta, ridimensionata. Anche se non vinta. Ebbene questo tema - il futuro dell'Europa nell'economia globalizzata - dovrebbe essere al centro del dibattito politico. Il taglio al bilancio imposto dagli egoismi nazionali rischia davvero di compromettere l'obiettivo principale, fare dell'Europa una (la) protagonista dell'economia della conoscenza? Le nove aree di sviluppo indicate da FP7 sono quelle giuste? La costituzione del Consiglio europeo della ricerca (ERC) consentirà di salvaguardare la ricerca di base, fondamento indispensabile per ogni altro tipo di ricerca scientifica e di sviluppo tecnologico?

In definitiva, come costruire il futuro dell'Europa e dei sui 455 milioni di abitanti? Di questo dovremmo discutere, anche in Italia. Invece, con un provincialismo che davvero non lascia ben sperare, nel nostro paese l'attenzione è rivolta unicamente a una questione importante, ma molto specifica: i finanziamenti alla ricerca sulle cellule staminali embrionali. È su questo problema che i teocon della destra, ma anche qualche ambiente del centrosinistra, stanno focalizzando l'attenzione, la polemica e persino l'azione politica. Eppure i finanziamenti alla ricerca sulle staminali nell'ambito del Settimo Programma Quadro rappresentano qualche decimo percentuale. E il tema, nella costruzione del futuro dell'Europa, è certo importante, ma non decisivo.

Insomma, dovremmo parlare anche e soprattutto di altro.

Quando il ministro Fabio Mussi ha ritirato la firma al «documento etico» che impegnava l'Italia insieme ad altri paesi a opporsi ai finanziamenti europei di ricerca sulle staminali embrionali ha compiuto un atto di laicità e, insieme, di apertura. Lasciamo che l'Europa decida del suo futuro (ivi incluso del suo futuro nel settore della ricerca sulle staminali e degli indirizzi bioetici) libera dai vincoli dei provincialismi politici e spesso bioetici dei suoi singoli 25 paesi e libera dal peso eccessivo che ha assunto il tema della ricerca sulle staminali. In modo da poter dare il giusto peso alle singole questioni e non farsi dettare l'agenda politica dalle legittime ma non prescrittive pressioni di alcune autorità religiose.

In coerenza con questa «visione europea» il nuovo ministro non si è limitato a ritirare la firma all'ormai famoso «documento etico», ma ha anche ribaltato la posizione assunta da Letizia Moratti contraria all'istituzione del Consiglio europeo della ricerca. Ed ha quindi restituito all'Italia il ruolo che le attribuì Antonio Ruberti, essere pioniere e non vagone piombato della ricerca europea. Ma di questo benemerito ribaltone pochi si sono accorti e pochi ne hanno dato atto al ministro. Eppure la ricerca scientifica è anche e soprattutto in l'Italia la porta per entrare nel futuro. E l'integrazione nello spazio europeo costituisce un (il) caposaldo di una nuova politica della ricerca del governo Prodi.

Converrebbe dibattere di questo. O, almeno, anche di questo. Walter Tocci, nel Forum su Università e Ricerca organizzato dai Ds lunedì scorso, ha giustamente notato che per difendere gli interessi nazionali occorre uscire dallo sgangherato isolazionismo del governo Berlusconi e fare sì che siano più forti la presenza e il peso italiani nelle scelte internazionali. E che, quindi, è nostra esigenza primaria avere una forte politica estera per la ricerca.

Una forte politica estera nasce, certo, dalla capacità del governo e dei suoi ministri. Ma nasce anche dalla capacità della sua classe dirigente in senso stretto (istituzioni, maggioranza politica, opposizione) e in senso lato (mass media) di sfuggire al provincialismo dei temi che accalorano solo in casa e porre l'attenzione sui temi che contano in Europa.


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