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Unità: Razza padrona

di Moni Ovadia una riflessione serena, ma senza sconti sul comportamento tenuto da una parte degli imprenditori confindustriali di Varese verso il segretario generale della Cgil Guglielmo Epifani

10/06/2006
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l'Unità

Moni Ovadia
Gli esseri umani, da che mondo è mondo, hanno pregi e difetti, sono capaci di grandezze e meschinità, di generosità e di infamie in base all'educazione che hanno ricevuto e a come il carattere e il temperamento si sono forgiati nelle esperienze della vita sin dai primissimi mesi di vita. L’appartenenza ai ceti sociali non influisce in modo definitivo sul comportamento individuale di un essere umano che, in assenza di psicopatologie gravi, è sempre in grado di rispondere alla propria coscienza. Per queste ragioni, ogni giudizio ideologico su un uomo in base alla sua appartenenza socio-economica è un pregiudizio. Ci sono imprenditori, banchieri, grandi commercianti che sono galantuomini e ci possono essere operai, manovali, impiegati scorretti, disonesti e perfino mascalzoni. Questa premessa è necessaria per compiere una riflessione serena, ma senza sconti sul comportamento tenuto da una parte degli imprenditori confindustriali di Varese verso il segretario generale della Cgil Guglielmo Epifani, loro ospite in un convegno organizzato dalla sezione varesotta di Confindustria. Quei gentlemen, inguantati da impeccabili gessati delle migliori stoffe, esibenti preziosi gemelli ai polsini, educati a dirigere e probabilmente formati in buone scuole, si sono lasciati andare ad una volgare gazzarra con lo scopo di impedire ad un importante interlocutore di esprimersi liberamente, invece di misurarsi con la dignità dell’argomento da lui proposto. E quale era la dignità dell’argomento? La responsabilità degli operai e il loro attaccamento alla fabbrica nei tempi drammatici dell'occupazione tedesca e del regime nazifascista. Perché quegli industriali hanno reagito scompostamente proprio a quelle verità incontrovertibili ed ampiamente documentate? Non per insofferenza ad una riflessione fuori tema, come qualche industriale ha sostenuto con l’intento di ridimensionare la gravità dell'episodio. Essi hanno reagito con intolleranza spinti dal loro retroterra squadrista, dalla sottocultura di un vetero-capitalismo da razza padrona di cui, una parte non piccola della classe dirigente italiana, è ancora sinistramente intrisa. Questi imprenditori sono gli eredi di quella sottocultura che invece di rispondere alle sacrosante lotte operaie per le otto ore, per i diritti sociali e contro il lavoro nero e lo sfruttamento massacrante e senza tutela dei bambini con riforme democratiche, con l’accoglimento lungimirante delle rivendicazioni dei lavoratori e con il sostegno a forze politiche che promuovevano forme avanzate di concertazione e di alleanza dei ceti produttivi, preferirono foraggiare ed armare le squadracce dei tagliagole fascisti. Uno dei pilastri di questa eredità avvelenata è l’odio per il sindacato in quanto tale, non la legittima e motivata critica alle strategie sindacali. Quando si ritrovano nei loro circoli esclusivi, nelle ville delle loro lussuose vacanze, questi “galantuomini” indicano il sindacato in genere e la Cgil in particolare come il padre e la madre di tutti i loro mali. È compito strategico di un capitalismo autenticamente democratico ed intelligente mettere in liquidazione questo vecchiume e rifondare il ruolo dell’imprenditore anche su basi etiche. I problemi posti dalle necessità dello sviluppo, dal mercato globalizzato, da concorrenti temibili come Cina ed India, dai gravami di un costo fiscale del lavoro squilibrato, non possono essere affrontati in una civiltà democratica senza tenere conto di un principio irrinunciabile: il lavoratore prima di essere una risorsa ed un costo è un essere umano dotato alla nascita da uno statuto di sacralità ed è un cittadino garantito da diritti inviolabili! Il sindacato, prima ancora che gli interessi, ne rappresenta l’identità.


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