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Unità: Quell’Italia che vuole ricominciare

Ha vinto l’idea di una separatezza tra rappresentanza istituzionale e bisogni materiali della gente

25/06/2006
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l'Unità

Paolo Nerozzi *Le ricerche sul voto compiute dall’Ires e da Swg riportate dall’Unità fanno chiarezza sui tanti problemi che la sinistra e il Governo hanno di fronte. Perché non solo ci parlano - come ben ha detto Accornero - di un popolo, quello del lavoro dipendente e quello dei disoccupati, che si sente privo di una rappresentanza politica, non difeso dai suoi tradizionali partiti di riferimento e quindi propenso a votare centrodestra. Ci parlano di un malessere più profondo che attraversa la società italiana.

Dopo decenni di battaglia delle idee una certa cultura politica ha infatti vinto. Ha vinto l’idea di una separatezza tra rappresentanza istituzionale e bisogni materiali della gente. Ha fatto cortocircuito un bagaglio di idee e valori che, abbandonati dai partiti storici della sinistra, la sola rappresentanza sindacale non riesce a sopportare. Non si tratta di maggiore o minore radicalità (il voto a Mirafiori, per quanto complicata e particolare sia quella realtà, ci deve insegnare qualcosa a tutti e a noi compete interrogarci a fondo), ma di una vera e propria rimozione dall’agenda del Paese e della sua classe politica della questione sociale.

Quando per anni - e in particolare negli ultimi cinque - abbiamo come Cgil rivendicato maggiore centralità politica per il lavoro (quello che cambia e quello che c’è, quello che si evolve e quello che manca) stavamo richiamando tutti a una riflessione ben più profonda di quanto possa essere apparso.

In un pezzo del Paese la più grande redistribuzione alla rovescia delle risorse (in 10 anni più di 4 mila miliardi di euro si sono spostati dal lavoro alla rendita, mentre il potere d’acquisto del lavoro dipendente e delle pensioni diminuiva o a mala pena teneva il passo con l’inflazione) si è saldata con una più generale questione di “secessionismo sociale”, di fuoriuscita cioè dal patto di cittadinanza.

La centralità ideologica che ha assunto il mercato aveva e ha in sé infatti i germi dell’egoismo sociale, dell’atrofizzazione di un pensiero e di un’azione collettiva, lo svilimento di ogni funzione dei luoghi pubblici della cittadinanza, a partire dallo Stato. Qui un certo “leghismo”, che va oltre i voti della stessa formazione politica di Bossi, si è saldato e si salda con il berlusconismo, con la parte cioè peggiore del nostro capitalismo straccione (fatto di lavoro nero e Bmw per il padrone).

Piaccia o no, quest’incontro tra le peggiore pulsioni del Paese ha rappresentato una risposta politica alle ansie e alle paure che la globalizzazione porta con sé, ai timori verso quella “costellazione post-nazionale” che spinge molti a rifugiarsi nel locale, nelle proprie tradizioni.

Ed è stata l’unica risposta in campo. Come Cgil ci abbiamo provato e ci proviamo tutti i giorni - intorno ad un’idea di confederalità che respinga corporativismo e individualismo - e abbiamo anche noi molte cose su cui interrogarci e criticarci. Ma il punto era ed è altro: la sinistra politica (in tutte le sue articolazioni) ha commesso qui il suo errore storico a cui deve rapidissimamente rispondere, ora che ha anche tutti gli strumenti per farlo (a partire dal Governo).

Ha scambiato il riformismo per moderatismo, il superamento della crisi dello Stato con la negazione di un’azione costante di inserimento delle masse e degli individui nella cosa pubblica. Ha frainteso i fermenti sociali e le profonde ingiustizie vecchie e nuove che si affastellavano, come prova di un sistema vecchio e logoro da buttare. Ha scambiato il bisogno di giustizia, di partecipazione e di democrazia con le riforme istituzionali.

La sinistra e la stessa coalizione si è scoperta così “indefinita”: indefinita di fronte ai milioni di giovani di talento e cultura sviliti da un lavoro precario e servile; indefinita di fronte alla crisi di identità che nelle nostre aree urbane spinge i più deboli a temere il diverso, ad averne paura e a provarne odio; indefinita di fronte all’attacco che il liberalismo populista della destra italiana portava alla pietra fondante del nostro attuale patto di convivenza: cioè alla nostra Carta Costituzionale.

Il Berlusconismo è stato, e forse è tutt’ora, egemone nel nostro Paese proprio per questa sua “sistematicità”. Questo non vuol dire, però, che il destino nostro e del Paese sia segnato. Anzi la vittoria dell’Unione ci consegna un’occasione unica: poter attuare una graduale, ma netta, opera di ricostruzione di un senso comune tra gli italiani. Ad oggi sarebbe la cosa più radicale e “rivoluzionaria” che potremmo fare.

La premessa è, allora, vincere il prossimo referendum. Saper dare ai cittadini, in questi ultime ore di battaglia elettorale, questo senso di ricostruzione di un comune sentire, di una comune premessa per ripartire è la questione centrale.

Subito dopo dovremmo quindi proseguire su una strada di riforme che mettano al centro la maggioranza degli italiani. Quel 60% che, ci ricorda l’Istat, è più povero e soprattutto si percepisce più debole. L’azione di governo può - sul lavoro, sul welfare, sui grandi temi delle trasformazioni economiche - avviare una lenta e progressiva opera di “rieducazione” di tutti.

Per farlo è però necessario dare un segnale di rinnovamento. Prima di tutto nel modo di essere e di fare politica. Occorre aprire porte e finestre e soprattutto occorre una forte opera di reinsediamento sociale della politica. È un compito che riguarda tutti, ma in particolare la sinistra dell’Unione.

Da questo punto di vista, la fotografia emersa in questi giorni, vuoi o non vuoi ci dice anche qualcosa su di noi, militanti Ds: in Italia serve una sinistra più forte, culturalmente critica, attrezzata a rappresentare gli interessi generali a partire da uno specifico punto di vista. Quello degli sfruttati, degli esclusi, dei più deboli. Di chi subisce modelli produttivi, culturali e politici che ne sviliscono i diritti e le speranze. Lo ha scritto meglio di me Massimo Salvadori, proprio sull’Unita.

Non possiamo far finta che non vi sia un filo rosso che lega la possibilità di far rientrare tutti nel patto sociale e politico che la Costituzione rappresenta, con la capacità del Governo di svolgere una reale azione riformatrice, con vasto consenso e partecipazione. E queste due dimensioni non sono slegate da una capacità per una grande cultura di sinistra - politica e sindacale - di ricostruire un “abbecedario” comune che parta dal lavoro, dall’uguaglianza sociale, dalla pace e dalla giustizia. Per dare al popolo e ai lavoratori la sinistra di cui si sente bisogno.

* Segretario Confederale Cgil


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