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Unità-Quei ragazzi che non sanno Perdere

Quei ragazzi che non sanno Perdere Roberto Cotroneo Cosa vuol dire che pochi giorni fa un ragazzo a Marsala è morto d'infarto davanti ai risultati scolastici che dicevano che era stato bo...

21/06/2005
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l'Unità

Quei ragazzi che non sanno Perdere

Roberto Cotroneo

Cosa vuol dire che pochi giorni fa un ragazzo a Marsala è morto d'infarto davanti ai risultati scolastici che dicevano che era stato bocciato?
E cosa vuol dire che ieri un altro ragazzo, di 17 anni, a Roma, si è buttato dal terzo piano per lo stesso motivo, perché doveva ripetere l'anno?
Dopo anni di luoghi comuni ora sembra sempre inutile fare della psicologia, inutile tentare di dare una lettura sociologica di questi due episodi drammatici. Così il rifiuto della psicologia da salotto, che ben conosciamo, e che per anni è stata intollerabile, ha condotto a un altro tipo di rifiutoQuello di cercare di capire non tanto i motivi del gesto di questo ragazzo romano, o i motivi dell'immenso dolore del ragazzo di Marsala, ma il significato vero di quello che sta avvenendo negli ultimi anni. E che non ha solo a che fare con la sociologia, ma ha a che fare con questo mondo in cui lasciamo crescere i nostri figli, con un modello di società e un modello di esistenza su cui bisognerebbe dire veramente qualcosa.
E non si tratta delle solite cose tipo: non siamo capaci di capirli (noi genitori), non siamo capaci di ascoltarli (noi genitori, gli psicologi, gli insegnanti, e tutti gli altri). Ma di ben altro. Nessuno ha una risposta soltanto sul perché un ragazzino, di fronte a un fallimento scolastico, decide di lanciarsi dal terzo piano. Nessuno ha facili risposte sulla sofferenza e sul dolore. Ma c'è un punto, uno soltanto, su cui gli insegnanti, la scuola in generale, i genitori, il mondo del lavoro, gli istruttori di calcio o di pallanuoto o di musica, chiunque insomma, devono cominciare a riflettere. Il punto è quello del valore.
Negli ultimi anni, in coincidenza con un barbaro neoliberismo di tipo culturale abbiamo costruito un mondo per i nostri figli dove il valore sta in quello che fai. Non è un dettaglio da poco, e non è vero che è sempre stato così. Le famiglie, la scuola, le competizioni sportive, sono costruite attraverso l'idea di valore. E non l'idea di valore per la totalità di quello che sei, ma applicato, soltanto a quello che dovresti saper fare.
Questo avviene sin dalle scuole elementari, attraverso un meccanismo di richieste degli insegnanti a cui si accodano talvolta i genitori, a cui si accodano gli insegnanti di discipline sportive. Già dalle elementari scatta un meccanismo di tipo competitivo. Si gioca a calcio per essere convocati alla partita della domenica, non per il piacere di giocare, si va a scuola per essere i più bravi, non per il piacere di imparare e di stare assieme.
Ma soprattutto passa un messaggio, in tutto, per cui se non sai reggere alla richiesta di prestazioni, non sei nulla. Il fallimento, l'incapacità di rispondere in modo efficace a queste prestazioni, porta a un vero e proprio fallimento identitario. E questo non basterà certo a spiegare i due casi drammatici di questi giorni ma spiega assai bene lo stress, la paura, l'ansia, e l'incapacità di pensarsi come bambini, come ragazzini e come persone, indipendentemente da quello che si è capaci di fare: perché quello che si è non è altro che quello che si è capaci di fare.
Poi certo, in tutto questo va anche considerato il rovescio della medaglia. Ovvero che in questa sorta di vuoto educativo e formativo le famiglie tendono da un lato a richiedere risultati e prestazioni ai propri figli, ma dall'altro a giustificarli di continuo a proteggerli nel caso questi risultati non vengano. Per cui si crea un paradosso abbastanza strano, dove i ragazzi più giovani vivono spesso una situazione di frustrazione all'esterno e di protezione all'interno della famiglia. Senza una via di mezzo, senza un equilibrio che li possa far maturare. Ma in un sistema dove la crescita dei giovani, il percorso formativo è lasciato solamente all'equazione identità/valore, sarà sempre più difficile far capire agli insegnanti, spesso (ma non sempre) bravi e attenti, ma con pochi strumenti per leggere fino in fondo il mondo che abbiamo di fronte, che devono scindere l'identità dal concetto di valore, che conta quello che si è, piuttosto che quello che si fa.
Lo aveva detto in modo didascalico e forse un po' semplicistico, molti anni fa l'autore di best seller Erich Fromm; lo ha scritto, lo ha analizzato per molti anni, un affascinante psicoanalista inglese di origini indiane, il principe Masud Khan, allievo del grande Winnicott, che si è occupato a lungo di quelli che lui chiamava gli "spazi privati del sé".
Non c'è bisogno di leggere Masud Khan per dire ai nostri figli che valgono per la loro capacità di essere delle persone che hanno sentimenti, che hanno una sensibilità, e che il loro valore sta nella loro unicità e nella loro esistenza in sé. Ma c'è bisogno di fargli riflettere che non ha alcuna importanza ottenere risultati a tutti i costi, che il tempo non serve soltanto a raggiungere un obiettivo e a raggiungere uno scopo, ma che il loro tempo è un tempo per perdersi, per tornare indietro, per capire, per "stare e sperimentare il mondo e la vita", non per raggiungere qualcosa. Il "campo coltivato a maggese" di cui parlava Masud Khan, è quel luogo della sensibilità, della creatività, dove si lasciano crescere i nostri figli, con attenzione certo, ma senza troppe regole, un luogo di poesia indispensabile per imparare un po' a capirsi e sopportare le frustrazioni della vita. Di campi coltivati a maggese ce n'è sempre meno. E questo è il dramma più grande di quest'epoca e di questi tempi.
rcotroneo@unita.it


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