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Unità: Quant’è inflazionato l’honoris causa

Lidia Ravera

26/07/2007
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l'Unità

Ho letto su la Repubblica: «La festa di laurea è durata lo spazio di un cocktail nell’albergo di famiglia nel centro di Torino. Poi, quando già Jonella Ligresti, figlia di Salvatore, era sull’auto che la riportava a Milano, il triste ritorno alla realtà. Quella laurea non s’aveva da consegnare». Si trattava di una laurea Honoris Causa, una delle tante. In economia aziendale. La laureata d’onore si era distinta, e nessuno lo mette in dubbio, nell’amministrazione delle assicurazioni di famiglia (Sai). Fabio Mussi che dell’Università e Ricerca dirige il Ministero, aveva già fatto sapere di non essere d’accordo, con quelle laurea in particolare, ma, soprattutto, con la tendenza a distribuire lauree come fossero confetti a chi si è distinto in qualunque attività dalla musica allo sport all’industria. Nel 2007, e siamo soltanto a luglio, ne sono già state conferite un centinaio. Negli anni scorsi si sono così laureati Valentino Rossi che corre in motocicletta, Ligabue che canta canzoni e Giovanni Rana che fa i tortelli. È giusto? No. Non è giusto nei confronti di chi studia per diversi anni, scrive due tesi, poi si rompe la testa coi concorsi di dottorato (non sempre cristallini nel ricorso alla doverosa meritocrazia), e poi si scontra con la disoccupazione intellettuale e va a rispondere al telefono nei call center o a servire birre ai tavoli di un pub. Non è giusto e non è opportuno, perché svuota un titolo che già di per sé non vale più quanto valeva una volta. Lo studio, nel nostro Paese, non gode della fama che merita. Molti fra i cittadini più giovani sono portati a desiderare scorciatoie di tutti i tipi pur di non faticare. La cultura è considerata un consumo alternativo e marginale, un po’ un passatempo per sfigati. Viene incensato chi è famoso o ricco o potente o giovanebello, non certo chi è erudito, preparato, istruito. Forse sarebbe il caso di incominciare a invertire la tendenza, no? Per esempio: premiare “il secchione” e mandare a scuola “la pupa” affinché diventi secchiona pure lei. E, a proposito di secchioni, ho letto su L’Isola Possibile, inserto siciliano de il manifesto che «un’equipe di economisti, giuristi, sociologhi ed esperti del fenomeno del crimine organizzato, coordinati da Angelo La Spina, ha indagato le voci del bilancio economico-finanziario di Cosa Nostra, tentando di quantificare i costi derivanti dalla presenza della mafia sull’Isola». Risultati sconcertanti: la Mafia costa ad ogni azienda sana 827 euro al mese. L’imposta è progressiva: gli ambulanti devono cacciare, per richiesta racket, 60 euro mensili; i gestori di lavori autostradali, sempre ogni mese, ne devono devolvere 17 mila. Il pizzo una tantum, anch’esso frequente, si attesta sui 32.500 euro. Per un appalto l’obolo alle cosche va dal 2 al 4,5% (2534 euro al mese per ogni azienda) e così via. Poi ci sono le ricariche, «l’imposizione mafiosa» aumenta i prezzi anche del 6/7 per cento. E si potrebbe continuare, ma la cosa più triste sono gli effetti collaterali del potere mafioso di imporre e disporre, minacciare e condizionare, pretendere e terrorizzare: la meritocrazia bloccata, la sfiducia nel valore del singolo e la conseguente disincentivazione allo sforzo pulito, all’impegno per migliorare, allo studio per diventare i più bravi, alla gara vinca «quello che ci offre le condizioni migliori». Se la gara la vincono sempre i potenti e il loro protetti, nel giro di un paio di generazioni, arriveremo all’immobilità sociale. Titoli, premi e privilegi pioveranno in massa sui già privilegiati. E a tutti gli altri non resterà che la licenza elementare. Magari Honoris causa.
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