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Unità: «Più Newton, per avere più democrazia»

INTERVISTA a Luigi Berlinguer. Un piano in 5 anni per superare il gap che affligge l’Italia in fatto di cultura scientifica. Perché, di fronte a nucleare e fecondazione assistita, sapere significa poter scegliere

11/04/2007
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l'Unità

di Cristiana Pulcinelli

Un laboratorio in ogni scuola. Per sviluppare la cultura del «rimboccarsi le maniche» a scapito di quella del «piove, governo ladro». Si potrebbe riassumere così la prima iniziativa del Comitato per lo sviluppo della cultura scientifica e tecnologica. Un gruppo di lavoro fortemente voluto da Luigi Berlinguer e nato grazie all’appoggio di 4 ministri: Università e ricerca, Istruzione, Beni culturali e Riforme nella pubblica amministrazione. Berlinguer ne è il presidente.
Professor Berlinguer, perché è nata questa commissione?
«I motivi sono molti. Il primo è economico e riguarda tutta l’Europa. Fino agli anni Novanta i maggiori investimenti in ricerca si concentravano nell’area atlantica: Stati Uniti, Canada ed Europa. Oggi a investire di più sono i paesi dell’area indopacifica. Cina e India in particolare. Se questo fenomeno perdurerà, nei prossimi anni il 90% degli ingegneri, dei chimici e dei fisici sarà asiatico e lavorerà in Asia. La vera minaccia alla nostra economia, dunque, non viene dai prodotti cinesi contraffatti ma dalla produzione tecnologica avanzata che afferma nei paesi asiatici».
E l’Italia?
«In Italia non abbiamo miniere, petrolio e neppure manodopera a basso costo. L’unica risorsa che abbiamo sono i cervelli, la cultura. Purtroppo, in questo momento stiamo perdendo colpi anche in questo campo. A dircelo sono vari segnali. Innanzitutto le indagini dell’Iea e dell’Ocse secondo cui le conoscenze scientifiche dei ragazzi italiani sono tra le più scarse del mondo, poi i dati sull’impegno finanziario per la ricerca scientifica che nel nostro paese è molto basso. E infine la diminuzione delle iscrizioni alle facoltà scientifiche. È vero: nel nostro paese ci sono settori di punta nella ricerca. Ma se è importante che si facciano scoperte originali, è altrettanto importante che la gente sia attrezzata dal punto di vista delle conoscenze scientifiche e tecnologiche: serve l’humus nazionale».
Quali sono i vantaggi di una cultura scientifica diffusa?
«La cultura scientifica educa al problem solving, ci colloca nel rapporto con i problemi in modo attivo e positivo. In questo momento l’Italia è attraversata da un senso di amarezza e sconforto: tutti sono scontenti. Così non si va lontano. Se si parla con uno spagnolo, con uno svedese o un finlandese, in media, si riscontra un atteggiamento più attivo, da protagonista. Perché? Le cause sono molte. Fra queste c’è innegabilmente una crisi profonda del sistema politico. Ma c’è anche una ragione di cultura generale: il popolo italiano non è stato educato ad avere una mentalità scientifica, cioè a conquistare la conoscenza e non a subirla. La scienza insegna infatti ad avere una visione positiva della vita, non delega ad altri la soluzione dei problemi. In Italia prevale la trasmissione del sapere rispetto alla sua conquista perché questa è stata l’impostazione data dai gentiliani alla scuola».
Il nostro paese ha dimenticato la scienza?
«La scienza è cultura. Oggi quest’affermazione è un’ovvietà per un finlandese e un coreano. Ma, paradossalmente, nel paese di Leonardo, Galilei e Fermi non è così. Basti pensare che da noi una persona può definirsi colta senza conoscere la legge di gravità, mentre chi dichiara di non conoscere Dante è considerato un barbaro».
Qual è l’assunto principale del comitato?
«Affermare la cultura della sperimentazione, del toccare con mano, cominciando dalla scuola. Perché è vero che non c’è cultura senza astrazione e concetti, ma è anche vero che non bisogna raggiungere questi concetti attraverso un apprendimento mnemonico: una legge della fisica o un processo biologico si possono cominciare a studiare da bambini attraverso le osservazioni e gli esperimenti. Bisogna cambiare la mentalità dominante nella società: un lavoro titanico, ma se non si comincia non si arriva mai. Nella scuola si può cominciare facendo appello al corpo docente perché sia protagonista di questa operazione di rilancio del paese. Ci vogliono quindi investimenti dello stato per la formazione didattica. In secondo luogo bisogna dotare le scuole dei laboratori, delle attrezzature e dei tecnici di laboratorio necessari. Noi proponiamo un piano da completare in 5 anni, ma da cominciare subito. Intanto, stiamo già facendo un’indagine per sapere quanti sono i laboratori funzionanti. Ed è partito uno studio comparativo sull’insegnamento delle scienze nei vari paesi».
Oltre alla scuola però ci sono altri luoghi in cui si può fare cultura scientifica. Sono previsti interventi?
«C’è il progetto lauree scientifiche per incoraggiare i ragazzi a scegliere queste facoltà. Nel 1989 gli iscritti a matematica erano 4396, nel 2004 1848. Bisogna pensare al modo di recuperare i giovani. E poi gli science center. In Italia ci sono 3 grandi musei scientifici e 1000 piccoli. Ma ancora siamo lontani dagli esempi europei. Economicamente c’è un abisso. Basta confrontare i dati: la Villette di Parigi riceve ogni anno come contributo pubblico oltre 87 milioni di euro, il museo della scienza e della tecnologia di Milano 2 milioni e 700mila euro. L’autofinanziamento per il primo è del 22%, per il secondo del 74%. Bisogna quindi sostenere questi musei economicamente, ma non basta. Bisogna inserirli in un sistema. Creare un’interfaccia tra i musei, la scuola e altre strutture».
Il mondo politico capirà queste esigenze?
«Voglio rispondere con una domanda: se andiamo a un referendum sul nucleare o sulla procreazione assistita, pesa o no il fatto che c’è una cultura scientifica limitata nel paese? La diffusione della cultura scientifica riduce i rischi di una delega eccessiva, rafforza la consapevolezza e quindi la democrazia».


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