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Unità: Piazza di Governo

Beh, certo che un milione di persone sono tante.

03/05/2006
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l'Unità

Roberto Cotroneo

Primo maggio / 2

Beh, certo che un milione di persone sono tante. Tante anche per quelli che non amano le retoriche delle piazze, e che per carattere e temperamento si terrebbero a distanza. Forse non erano un milione, forse erano 800 mila, ma quelle 800 mila persone erano una cosa diversa rispetto soltanto a un mese fa. Erano la prova generale di una piazza che non era di opposizione, ma una piazza di maggioranza. E la differenza è enorme. Non si trattava di andare il primo maggio a san Giovanni per contestare il governo di Berlusconi.

M

a si doveva capire come il risultato delle elezioni politiche, sommato all’elezione dei presidenti di Camera e Senato, aggiunto al clima di vigilia di dimissioni di un governo lunghissimo, poteva influenzare il popolo del primo maggio, che non è soltanto il popolo della sinistra. Un popolo di giovani, quasi solo giovani, e ovviamente il popolo dei precari, il popolo della legge 30. Gente abituata a non «fare progetti a lunga scadenza», parafrasando una vecchia battuta di Humphrey Bogart.

Come era quel popolo lì? A dire il vero, la domanda andrebbe girata prima di tutto a Romano Prodi e ai suoi alleati. Se avessero potuto affacciarsi da un terrazzo di San Giovanni, e avessero potuto guardare attentamente, avrebbero visto un po’ di cose.

1. Il senso di speranza. La gente del primo maggio sorrideva, era felice, e coglieva quella occasione, che è sempre stata una occasione simbolica, per dire: attenti, contiamo su di voi. Il senso della speranza mancava da molto tempo dalle piazze. Poi è vero, lo spettacolo aiutava: aiutava Ligabue e Pino Daniele, il ritmo dei Sud Sound Sistem e il rapper Caparezza. Anche se alcuni era un po’ troppo preoccupati a «far parlare la musica», o a chiarire che «o si fa musica o si fa politica», e altre banalità del genere (mandarli a ripetizione da Bob Dylan, o da Bruce Springstein, o da Bono, gli farebbe bene...). E aiutava soprattutto quel trascinatore vero e popolarissimo di Claudio Bisio che sapeva invece assai bene che musica e politica, al primo maggio, sono la stessa cosa, senza che la politica o la musica ne risentano. Insomma anche per tutte queste cose, l’altro ieri a san Giovanni i sorrisi erano diversi. Gli sguardi erano cambiati.

2. Nessun rancore sul passato. Nonostante certe leggi del gooverno Berlusconi si possono pagare care, specie a quell’età, come la legge sulla droga. Ma quasi una volontà di voltare pagina. Tutte le battute su Berlusconi, negli striscioni, tra le parole della gente, erano battute spiritose, ironiche, e divertite. La migliore? «Io sto a Berlusconi come Bisio al pettine».

3. L’idea che questo Paese va rimesso sui binari giusti. Attraverso il lavoro. Il lavoro è la condizione del futuro, l’unica possibile, per quei giovani in piazza. Lo ha detto Bisio, lo hanno detto, anzi lo hanno cantato Epifani, Bonanni e Angeletti, con un «Viva l’Italia» su cui il mio amico De Gregori avrà avuto uno shock di genere melodico, viste le stonature davvero esagerate. Ma andava bene lo stesso. «Viva l’Italia» di De Gregori è una canzone per nulla epica, e assolutamente antiretorica, fredda e vera come l’acciaio: «viva l’Italia assassinata dai giornali e dal cemento... l’Italia metà dovere e metà fortuna...». Funzionava, dopo cinque anni di retoriche berlusconiane, una giovane piazza “di maggioranza” antiretorica che rimetteva la parola «Italia» al posto che le compete. Come era giusto applaudire i carabinieri morti di Nassiyria sventolando le bandiere arcobaleno della pace.

4. Il grande tema della criminalità organizzata, della mafia, e la lettera dei ragazzi di Locri. La consapevolezza dei più giovani, che non sono cinici e non sono fintamente fatalisti, che si deve passare da lì perché qualcosa cambi. Che il sud Italia può rinascere soltanto attraverso il ripristino della legalità.

Poi certo, tutto il resto era festa, erano sorrisi, ed erano le foto di sempre, le foto degli happenning che da Woodstock in poi vediamo sempre uguali, e sempre belle. Alla fine si è cantato «Bella ciao», che è una curiosa canzone. Un canto di lavoro doloroso, delle risaie del vercellese, che è diventata una celebre canzone della tradizione partigiana. E che l’altra sembrava esser tornata di nuovo la canzone che era in origine, e che diceva: «Ma verrà un giorno che tutte quante, / o bella ciao, bella ciao, bella ciao ciao ciao, / ma verrà un giorno che tutte quante, / lavoreremo in libertà». E se si pensa che moltissimi di quei giovani di San Giovanni venivano dalle regioni del sud, le stesse regioni che hanno dato assieme al centro Italia il risultato più convincente al centro sinistra, molti conti tornano. E molte aspettative pesano come non mai.

rcotroneo@unita.it


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