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Unità: Pensioni, l’ultimatum dei sindacati

Giorni decisivi per il negoziato. Epifani: «Non firmo accordi con fabbriche e uffici chiusi» In caso di rinvio, sciopero generale dopo l’estate. Prodi prepara la proposta finale

16/07/2007
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l'Unità

di Rinaldo Gianola

«Una cosa è certa: con le fabbriche chiuse io non firmo niente». Da qualche giorno Guglielmo Epifani ripete queste parole ai suoi più stretti collaboratori commentando la lunga, interminabile, faticosa trattativa sulle pensioni.
Non è un mistero che la Cgil, insieme alle altre confederazioni, ritiene la settimana che inizia oggi quella decisiva per arrivare a un accordo. O si firma entro sabato, oppure di scalone, scalini, quote e altre diavolerie se ne parla a settembre. Senza lavoratori nelle fabbriche e negli uffici, non ci sono intese da sottoscrivere.
Ma un rinvio del negoziato, che in questa congiuntura potrebbe essere interpretato come un fallimento politico e sindacale, non sarebbe indolore, né per le confederazioni, né tantomeno per Romano Prodi.
La ripresa della trattativa dopo l’estate sarebbe accompagnata da uno sciopero generale indetto da Cgil, Cisl e Uil contro il governo sulla riforma delle pensioni. Se non è un ultimatum all’esecutivo quello che gira in queste ore sulle bocche di alcuni leader sindacali, poco ci manca.
Sciopero? Scontro? Non c’è nulla di male: uno sciopero rappresenta un segnale di normale conflitto nella dialettica tra parti sociali e governo e potrebbe essere anche propedeutico a un successivo, positivo incontro. Ma per il centrosinistra, che ha vinto le elezioni definendo «iniquo» lo scalone di Maroni, iniziare la stagione della prossima legge Finanziaria con milioni di lavoratori nelle piazze a chiedere il rispetto delle promesse non sarebbe un bel risultato. Anche se non è da escludere che nel centrosinistra ci possa essere qualche tentazione “modernizzatrice” nel forzare la mano contro i sindacati, per segnalare all’opinione pubblica che il costituendo partito democratico non ha certo paura di rompere con il mondo del lavoro.
Dall’altra parte per i sindacati, e soprattutto per la Cgil, non si può nemmeno lontamente ipotizzare di trattare e chiudere un accordo mentre i lavoratori sono in ferie. E man mano che passano i giorni, e la proposta di Prodi ancora non si vede, a qualcuno particolarmente sospettoso è venuto in mente che nel governo ci sono protagonisti di primo piano che puntano al rinvio a dopo l’estate, mantenendo la spada dello scalone sulla testa dei sindacati. Fantasie? Probabile, però non si sa mai. A pensar male, come diceva quel famoso senatore a vita, si fa peccato ma ogni tanto ci si prende.
Di certo mentre si avvicina la fine di luglio, in casa Cgil è cresciuto l’allarme e con l’allarme ha preso corpo la «sindrome del 31 luglio» di cui nessuno, nel sindacato di Epifani, ha nostalgia. La fine di luglio del 1992, con l’accordo tra il governo Amato e le parti sociali, rappresentò un passaggio drammatico per la Cgil, con la firma di un storico documento che sanciva la definitiva cancellazione di ogni indicizzazione dei salari e bloccava la contrattazione, che portò alle dimissioni (successivamente rientrate, non senza traumi però) dell’allora segretario generale Bruno Trentin. Per questo Epifani, che è davvero moderato e dotato di buon senso, starà al tavolo fino all’ultimo minuto utile, ma non oltre la fine di questa settimana. Perchè proprio non si può. Se c’è l’accordo bene, i sindacati allora chiameranno alla consultazione tutti i lavoratori e poi le nuove pensioni andranno in Finanziaria. Se non si fa l’accordo nei prossimi giorni, invece, ci si rivede in autunno con uno sciopero generale.
Quello che sorprende, in casa Cgil ma anche nelle altre confederazioni, è la drammatizzazione che sui giornali e nel governo alcuni fanno della situazione previdenziale e dei conti pubblici. Ma non siamo nel 1992. Pur con tutti gli sforzi d’immaginazione, oggi nessuno al governo, all’opposizione e nemmeno sulla grande stampa d’informazione può paragonare l’emergenza di quindici anni fa, quando per noi si parlava di «sindrome messicana» e il dottor Sottile ci deliziò con una manovra da 90mila miliardi accompagnata dalla svalutazione della gloriosa lira per conquistare Maastricht, con l’Italia del 2007. Oggi i conti sono in ordine, il deficit-pil è sotto il 3%, c’è la ripresina e pure un extra gettito da distribuire.
Ma sulle previdenza, invece, è sempre allarme. Siamo perennemente allo scontro generazionale, ai sindacati conservatori, alla sinistra ostaggio dei suoi estremismi e via discorrendo. La Confindustria strepita, i giornali degli industriali e delle banche si lamentano per i tempi biblici e difendono lo scalone. Valorosi giornalisti ed ex dirigenti della Banca d’Italia, che incassano almeno un paio di pensioni mensili da far impallidire quelle di interi reparti di Cipputi, si ergono a moralizzatori e a difensori della stabilità finanziaria. Poi il professor Giavazzi vorrebbe un Sarkozy, un uomo forte, o almeno un decisionista in salsa tricolore. Forse cercano di influenzare Walter Veltroni, che s’è già preso il rimbrotto di Paolo Mieli per aver appoggiato, ma non firmato, il referendum elettorale.
Eppure, a ben vedere, un accordo potrebbe essere già sul tavolo, se il governo fosse tutt’uno. Le carte sono state voltate. Ai sindacati può andar bene che dal 2008 si vada in pensione a 58 anni, poi si può ragionare su due quote (età anagrafica più contributiva) a 95 e 96. Il piatto sarebbe completato dall’aumento dei contributi per i parasubordinati, dal taglio alle pensioni d’oro e dall’accorpamento degli enti previdenziali per recuperare risorse. Ma se questa ipotesi trova consensi sociali e anche politici, perchè ancora non si formalizza e magari si chiude con una firma e una bella bicchierata? Forse è una ipotesi troppo timida per gli aficionados di Sarkozy, fuori e dentro la maggioranza? Si vedrà.
Il problema vero è che la trattativa inciampa spesso nel ministro dell’Economia, Tommaso Padoa-Schioppa. E in queste settimane, per dirla tutta, è emerso con chiarezza che tra la Cgil e il ministro c’è una difficoltà di comunicazione e di comprensione. Tanto che nella confederazione di Corso d’Italia c’è chi rileva che «o Prodi prende in mano la partita oppure con Padoa-Schioppa non si fa nemmeno un passo avanti». E proprio in questo momento delicato per la vertenza delle pensioni, considerate le obiezioni del titolare di via xx settembre, alla Cgil ricordano come non sia la prima volta che con il ministro dell’Economia, un “tecnico” che sente sulle sue spalle la responsabilità del risanamento dei conti e dello sviluppo del Paese, si arriva sulla soglia dello schianto. Il superamento dello scalone costa tanto, almeno un miliardo di euro l’anno. Ma per alcune veline forse scappate dal ministero dell’Economia e arrivate sui giornali confindustriali il costo sarebbe ben più elevato, insostenibile. Ma non ci sono solo le pensioni.
A Padoa-Schioppa la Cgil rimprovera di aver sbagliato i conti e di aver sottostimato le entrate fiscali nella fase preparatoria della Finanziaria 2007 che, alla prova dei fatti, ha poi deluso famiglie, lavoratori e pensionati mentre alle imprese si concedeva il taglio del cuneo fiscale. Altri ricordano ancora l’ostruzionismo del ministro nel rinnovo del contratto degli statali, salvo poi firmarlo senza particolari modifiche il giorno dopo le elezioni amministrative chiuse con risultati certo non brillanti per la coalizione di centrosinistra. Poi c’è stata la diatriba, che poteva sfociare in una rottura, sull’extragettito e l’aumento delle pensioni minime. E adesso lo scontro, si perchè tra Cgil e Padoa-Schioppa di scontro si tratta, sulla riforma delle pensioni. In questo quadro tocca spesso al ministro del Lavoro Damiano predicare prudenza e ricucire pazientemente le posizioni.
Ma miracoli non ne fa nessuno, nemmeno Ronaldinho. Spetta a Prodi dire la parola finale sulle pensioni. Il conto alla rovescia è iniziato.


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