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Unità-Non c'è Italia senza ricerca

di Pietro Greco Da domenica 16 ottobre, per investitura popolare, abbiamo il candidato del centrosinistra alle elezioni politiche generali della prossima primavera: Romano Prodi. Da quasi cinque ...

08/11/2005
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l'Unità

di Pietro Greco

Da domenica 16 ottobre, per investitura popolare, abbiamo il candidato del centrosinistra alle elezioni politiche generali della prossima primavera: Romano Prodi. Da quasi cinque anni abbiamo una necessità improrogabile per il bene del Paese: battere il governo Berlusconi, il peggiore che l'Italia abbia mai avuto in regime democratico. Ma c'è un'idea forte per il programma economico e sociale? Vincere le elezioni, ma per fare cosa?
In questi giorni si è aperto il tavolo dell'Unione per rispondere in maniera puntuale proprio a queste domande ed elaborare il programma di governo. Domani, infine, si terrà a Roma (presso il Centro Congressi Cavour, in via Cavour 50a, ore 10.30) la prima riunione del Forum permanente dei Ds per l'università e la ricerca, aperto a tutti coloro che vogliono fornire un contributo di idee, senza vincoli di appartenenza. Siamo, dunque, ancora in tempo per fornire una modesta indicazione. Ogni idea deve partire da un'analisi dei fatti. E i fatti ci dicono che l'Italia è un paese in declino. Si tratta di una crisi grave, strutturale, che nasce dall'economia, ma che non è solo economica: è anche culturale e sociale. Qual è la causa? Ce ne sono molte. Quella più profonda consiste nel fatto che la specializzazione produttiva del sistema paese non è più competitiva. Abbiamo scelto (in un periodo preciso, l'inizio degli anni '60, come documentato da Gianni Paoloni, storico dell'università La Sapienza di Roma) di seguire una strada di sviluppo diversa da ogni altro paese industriale: ritagliarci una nicchia isolata nell'ambito dei prodotti a bassa innovazione tecnologica. Puntando su due fattori: il basso costo del lavoro e la periodica svalutazione cosiddetta "competitiva" della lira.
Oggi non è più possibile utilizzare questi due fattori: il costo del lavoro italiano è superiore a quello dei paesi a economia emergente; non abbiamo più la "liretta" da svalutare, ma al contrario una moneta, l'euro, forte e solida. Questa situazione lascia aperta la porta a due sole possibilità: o abbandonarci a un declino sempre più profondo o tentare un'impresa titanica, al limite della velleità: il rapido cambiamento della specializzazione produttiva. Il sistema Italia deve iniziare a produrre altri beni, diversi da quelli prodotti negli ultimi quarant'anni. Gli unici beni che un paese con un'economia e una società sviluppate può oggi produrre in maniera competitiva sono quelli ad alto valore tecnologico aggiunto. Anzi, ad alto valore di "sapere" aggiunto.
Per produrre questi beni abbiamo bisogno di luoghi ove si produce conoscenza; di luoghi ove la conoscenza viene trasformata in "prodotti ad alto contenuto di sapere" e, ultimo ma non ultimo, di superare l'antica ritrosia del sistema produttivo italiano a misurarsi coi migliori sulla scena internazionale, senza cercare furbe scorciatoie. Quali siano i luoghi del "sapere" è cosa nota: i centri di ricerca scientifica. Ma la scienza italiana ha almeno due gap da recuperare: uno enorme, l'altro abissale. Quello enorme riguarda la ricerca pubblica: settore in cui il nostro paese spende, in media, almeno un terzo degli altri a economia e società sviluppate. Quello abissale riguarda la ricerca privata: l'industria italiana investe in ricerca una quota di Pil inferiore persino dell'80% rispetto a quella degli altri paesi avanzati.
Perché questo gap? Ci sono motivi culturali, certo. Ma, come ha mostrato più volte Sergio Ferrari, ex direttore generale dell'Enea e studioso della competitività del sistema Italia, non è che i nostri industriali siano peggiori (o migliori) degli altri. A parità di grandezza dell'azienda e di specializzazione produttiva, investono in ricerca esattamente quanto gli altri. Il problema è dunque strutturale: risiede nella grandezza media delle aziende italiane e, soprattutto, nella loro specializzazione produttiva. Ritorniamo, dunque, al problema di partenza: il sistema Italia realizza prodotti che non richiedono nuova conoscenza scientifica. Ciò ha un imponente riflesso sugli investimenti industriali nella ricerca. E un meno imponente, ma pur sempre grave, riflesso sugli investimenti pubblici.
Cosicché per curare i nostri mali (economici, sociali e culturali) non abbiamo alcun altra scelta che quella, urgentissima, di intraprendere un cambiamento di specializzazione produttiva. Non più (solo) scarpe e sedie, ma anche e soprattutto hi-tech. Già, ma come tradurre questa necessità strutturale in un programma di governo: nel programma di governo del centrosinistra? Non è semplice modificare la "vocazione profonda" di un sistema paese. Soprattutto se quel paese, come oggi l'Italia, non ha molti soldi da investire. In queste condizioni, per non precipitare, occorre affidarsi agli unici appigli disponibili. E, secondo Sergio Ferrari, questi appigli sono tre: il sistema di ricerca pubblico del paese; le finanze dello Stato; le forze produttive (industriali e lavoratori) che riconoscono l'urgenza del cambiamento e sono disponibili a realizzarlo. Certo, nessuno di questi tre appigli è solidissimo. Ma sono i soli che abbiamo. E non abbiamo altra scelta che cercare di afferrali.
Il sistema di ricerca pubblica non è privo di pecche e lacune. Ma è già culturalmente attrezzato per realizzare la grande trasformazione: perché è il solo in Italia che si confronta, sistematicamente, con i migliori del mondo. Con buoni risultati: la produttività scientifica dei ricercatori italiani non è inferiore a quella media europea e nord-americana. Lo Stato non ha molte risorse. Ma è l'unico che, credibilmente, può racimolare nei primi cento giorni di attività di governo una quantità significativa (uno o due miliardi?) di euro da investire nel cambiamento della specializzazione produttiva del paese. Inoltre è l'unico che può indicare i due o tre assi strategici (non più) intorno a cui avviare l'urgente e titanico sforzo di cambiamento. Infine i produttori: gli industriali e i lavoratori. I primi non hanno molte risorse da investire. Mentre hanno da modificare la loro "cultura produttiva". Non è uno sforzo da poco. Né è uno sforzo scontato: la propensione al cambiamento degli industriali italiani non è esaltante. I lavoratori possono, forse, più facilmente riuscirci: il sindacato italiano si è sempre fatto carico, più di altri, degli interessi generali. Eccolo, dunque, il programma forte del centrosinistra in campo economico (e, a ben vedere, anche culturale): cementare un'alleanza tra ricercatori e mondo produttivo. Dare, nei primi cento giorni, segnali chiari a tutti gli attori protagonisti di voler intraprendere una storica inversione di tendenza della "cultura produttiva" del paese. Ai ricercatori pubblici il governo di centrosinistra deve garantire un miglioramento delle condizioni di lavoro, la piena autonomia di ricerca in laboratorio, ma anche la scelta chiara di obiettivi di interesse nazionale da raggiungere. A se stesso lo Stato deve chiedere una lucidità programmatica e una flessibilità burocratica tale da aumentare considerevolmente la probabilità di raggiungere gli obiettivi strategici che si pone. Obiettivi che vanno qualificati in sede politica. Per esempio, il nuovo tipo di sviluppo proposto dovrà essere necessariamente sostenibile, e quindi i progetti vanno elaborati tenendo conto della risorsa ambiente, che in Italia è tra le risorse principali. Agli industriali che si metteranno in gioco il governo deve garantire buone norme e grandi stimoli. Ai lavoratori che parteciperanno al programma di ristrutturazione della specializzazione produttiva il governo deve fornire garanzie accettabili.
Riuscirà il governo di centrosinistra a cementare la "nuova alleanza" e a costruire il blocco sociale che dovrà rivoltare come un calzino il sistema produttivo italiano? Ce lo auguriamo. Ma, naturalmente, non possiamo saperlo in anticipo. Ciò che possiamo - e dobbiamo - sapere è quanto il centrosinistra che si presenterà compatto alle elezioni politiche della prossima primavera sotto la guida di Romano Prodi è consapevole della necessità di accettare la sfida e dell'urgenza di costruire quel blocco sociale.


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