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Unità-Niente ricerca, niente sviluppo, ma Berlusconi non lo sa

Pietro Greco C'è un ragione che spiega, almeno in parte, la perdita di competitività e il conseguente declino dell'industria italiana: da almeno quarant'anni l'impresa italiana - unica in...

28/06/2004
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l'Unità

Pietro Greco

C'è un ragione che spiega, almeno in parte, la perdita di competitività e il conseguente declino dell'industria italiana: da almeno quarant'anni l'impresa italiana - unica in occidente - non crede nella ricerca scientifica. E, fatto ancora più grave, questa mancanza di fiducia è andata aumentando negli ultimi anni. Mentre in tutti gli altri paesi avanzati le imprese acceleravano, tra il 1990 e il 2000, gli investimenti privati in ricerca e sviluppo, in Italia diminuivano del 30%. Nel 1990 quegli investimenti ammontavano allo 0,75% del Prodotto interno lordo, nel 2000 erano scesi a meno dello 0,55%. E oggi sono ancor meno. A parità di fatturato, un'azienda italiana investe in ricerca e sviluppo un quarto di un'azienda americana. Il paese scivola sempre più giù nelle classifiche della competitività.
Sulla base di questi numeri dovremmo concludere che non solo il presente, ma anche il futuro è compromesso.
Tuttavia c'è una novità positiva che accende la speranza di uscire dalla spirale del declino: per la prima volta dopo quarant'anni in Italia sta crescendo la consapevolezza che in un paese a economia avanzata non c'è "sviluppo senza ricerca". Da più parti, infatti, si inizia ad affermare con convinzione che al declino ci si può opporre in un solo modo: puntando sull'innovazione e sulla scienza che produce le idee per l'innovazione. Lo affermano con forza i sindacati. Lo afferma ogni volta che può il Presidente della Repubblica (un presidente che sa di economia), Carlo Azeglio Ciampi. Lo dichiara da qualche tempo il Governatore della Banca d'Italia, Antonio Fazio.
E lo dice, infine, sempre più spesso e con apparente convinzione anche il nuovo presidente di Confindustria, Luca Cordero di Montezemolo. Aggiungendo che le aziende italiane devono trovare al loro interno una parte cospicua delle risorse per finanziare la loro ricerca. Insomma, le imprese italiane devono imparare a "credere nella ricerca". È un messaggio, questo, che da quarant'anni non sentivamo dagli ambienti industriali e finanziari e che potrebbe davvero contribuire a segnare una svolta nella politica di sviluppo del nostro paese.
Che la scienza sia la leva strategica per il consolidamento e l'ulteriore sviluppo delle economie avanzate non è un'idea astratta. Ma si fonda su solide basi storiche. Tutto inizia nel luglio del 1945, quando il direttore dell'US Office of Scientific Research, Vannevar Bush, trova il tempo di redigere per il nuovo Presidente degli Stati Uniti, Harry S. Truman, il rapporto "Science: The Endless Frontier". La scienza accademica, sostiene Bush, è il fondamento strategico su cui fondare la sicurezza economica e sociale, oltre che militare, degli Stati Uniti. L'indicazione diventa realtà. Tanto che gli Usa e, a cascata, tutti i grandi paesi industrializzati iniziano a fondare sulla ricerca scientifica e tecnologica il loro sviluppo economico e civile.
Anche l'Italia, nell'immediato dopoguerra, partecipa di questa strategia dello "sviluppo attraverso la ricerca". Con grandi benefici. Scientifici ed economici. La nostra industria chimica raggiunge livelli di avanguardia assoluta. All'Olivetti di Ivrea mettono a punto il primo personal computer del mondo. L'Eni di Mattei sfida le "sette sorelle". Lo svizzero Daniel Bovet, come molti altri, viene in Italia, presso l'Istituto Superiore di Sanità, per effettuare ricerche d'avanguardia e con queste sue ricerche italiane vince il premio Nobel.
Poi, improvvisamente, all'inizio degli anni '60 questa stagione finisce. Mattei muore in un incidente aereo tuttora considerato misterioso. L'Olivetti chiude la strada che, più tardi, avrebbe fatto la fortuna di Bill Gates. Felice Ippolito, direttore del Comitato nazionale per l'energia nucleare e Domenico Marotta, direttore dell'Istituto Superiore di Sanità, vengono trascinati in tribunale. Il flusso dei cervelli diventa a senso unico: via dall'Italia. E il nostro paese esce dal percorso di tutte le economie avanzate e di persegue, da solo, uno "sviluppo senza ricerca".
La scelta è politica, ma anche imprenditoriale. Saranno gli storici a dirci perché viene realizzata. Sta di fatto, però, che la competitività italiana non punta più sui prodotti a tecnologia avanzata, ma su nicchie di mercato nel campo della "commodities" (prodotti di massa a tecnologia matura) e sulla svalutazione ricorrente della lira. La spesa in ricerca scientifica dell'Italia si assesta intorno a percentuali del Prodotto interno lordo che sono tra la metà e un terzo degli altri paesi avanzati. L'intensità degli investimenti industriali in ricerca e sviluppo risulta, in particolare, lontanissima da quella delle imprese straniere. L'Italia inizia a uscire dal novero dei paesi che sanno innovare.
La scelta dello "sviluppo senza ricerca" non sembra, però, avere conseguenze sull'economia italiana. Almeno fino a quando la lira non entra nel sistema dell'euro (la strada della svalutazione diventa impraticabile) e il mondo non conferisce una nuova accelerazione all'economia delle alte tecnologie. In breve l'Italia perde competitività rispetto sia ai paesi a economia sviluppata che rispetto ai paesi emergenti. La grande industria quasi scompare. Mentre le medie e piccole industrie arrancano. Si verifica, cioè, quello che era facilmente prevedibile. Non riusciamo a competere con i paesi che producono alta tecnologia perché non abbiamo le idee. Non riusciamo a competere coi paesi emergenti che producono "commodities" perché abbiamo costi strutturali decisamente superiori.
A questo punto la situazione è insostenibile. Qualcuno parla di declino del paese. È dunque in questa condizione di emergenza che nei settori decisivi dell'economia e della società sembra maturare, finalmente dopo quarant'anni, una nuova cultura dello sviluppo. Senonché &
Senonché in nessun paese si è mai verificato che una cultura di sviluppo si è trasformata in concrete politiche senza o, addirittura, contro il governo. Quando Vannevar Bush propone il suo famoso rapporto, Harry S. Truman e, poi, di seguito tutti i successivi presidenti degli Stati Uniti fanno propria quella indicazione e la incarnano in politiche concrete.
Oggi, invece, siamo in una situazione in cui tutto il sistema economico e finanziario del paese - per la prima volta dopo quarant'anni, lo ripetiamo - fornisce indicazione "á la Vannevar Bush", ma non c'è un governo che sembra pronto a recepirle e a incarnarle in politiche concrete. Oggi è il governo Berlusconi l'ultimo ostacolo allo "sviluppo attraverso la ricerca" e, quindi, al tentativo di risalire la china del declino industriale ed economico dell'Italia.
Questa affermazione non nasce da un pregiudizio. Ma dall'analisi dei fatti. Il governo Berlusconi ha effettuato vistosi tagli al bilancio della ricerca pubblica, una ricerca che in ogni paese avanzato non solo completamente ma stimola la ricerca privata. Non sta favorendo in alcun modo la stessa ricerca privata, anzi si accinge probabilmente a drenare risorse anche da quell'ultimo fondo di barile. Ma, soprattutto, non ha proposto una sola idea per operare una riforma strutturale e conferire al nostro sistema industriale un'autentica vocazione alla ricerca.


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