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Unità: Nella scuola all'ombra del muro

Oltre i cancelli della scuola elementare «Giovanni XXIII» di Padova, a due passi dalla zona famosa per il muro innalzato intorno alle famiglie straniere, le maestre insegnano il significato della parola «accoglienza».

23/02/2009
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l'Unità

Carlo Ridolfi

All’uscita di scuola i ragazzi non vendono libri, ma si accapigliano in una festosa policromia di facce e di fogge per arrivare ad ottenere l’album di figurine che una gentile signorina distribuisce a scopo promozionale. Sono ai cancelli della scuola primaria «Giovanni XXIII» di Padova, vicinissimo a via Anelli, la zona di Padova resa famosa per il muro costruito intorno alle residenze, oggi sgomberate, di decine di famiglie di stranieri.

Mi accoglie un grande striscione giallo, con su scritto: «Salviamo la scuola». «È stato il coordinamento dei genitori a metterlo - mi dice Maria Assunta Varotto, responsabile di istituto e docente di inglese - Hanno scelto il colore giallo per indicare l’allarme ormai raggiunto al massimo per le sorti della scuola pubblica».

Insieme ad altre due maestre, Monica Galuppo e Roberta Scalone, e alla facilitatrice linguistica Giulietta Poli, Maria Assunta è autrice di un libro davvero prezioso, pubblicato con il patrocinio del Comune di Padova: La «scuola di via Anelli». Esperienze di integrazione all'ombra del muro.

La scuola ha 155 alunni. Il 40 per cento sono stranieri. Questo sarebbe il dato che appare immediatamente agli occhi dell’osservatore superficiale. Ma superficiali non sono né il libro né le autrici e subito ci tengono a precisare che molti ormai sono di seconda generazione o figli di coppie miste.

«Quando sono arrivata qui io, - racconta Monica Galuppo, insegnante di matematica, scienze ed educazione musicale - più o meno a metà degli anni Novanta, erano molti i bambini che non conoscevano una parola di italiano. Oggi il panorama è molto più vario e non è raro trovare piccoli di colore che parlano benissimo l’italiano e magari fanno da interpreti ai loro parenti».

Stiamo parlando nell’aula chiamata Accoglienza, piena di disegni e immagini e scritte in diversissime lingue.

Accoglienza

Giulietta Poli, facilitatrice linguistica e responsabile del progetto Accoglienza, precisa che: «Ci piace partire dalle parole, anche quelle più usate e che apparentemente tutti comprendono, per riflettere bene sul loro significato. Parole come “integrazione”, “extra-comunitario”, “immigrato”, tolleranza”, che tutti usiamo e che hanno alla radice una visione del mondo, purtroppo non sempre accogliente».

Parole e gesti, così come nel libro si trova una bellissima pagina che descrive quanti significati diversi, nelle differenti culture, abbia il semplicissimo atto di toccare la testa a un bambino.

Significati che è utile conoscere, sia per evitare imbarazzanti gaffes interculturali, sia per la stessa efficacia didattica e pedagogica che viene richiesta alla scuola.

«Non è semplice evitare errori, fatti anche nella massima buonafede. - dice Roberta Scalone, che insegna storia, geografia, informatica e scienze motorie - Nel libro raccontiamo, insieme a molte altre, la storia di F., un bambino adottato che ha reagito nascondendosi sotto il banco e scoppiando in un pianto disperato alla vista della mediatrice culturale che doveva aiutarlo a inserirsi. Abbiamo capito il senso del suo disagio solo quando ci ha detto fra le lacrime: “Sono italiano!”. Non voleva sentirsi uno straniero da inserire, ma un italiano a pieno titolo».

Uno degli aspetti più interessanti di questo libro, in effetti, è il continuo alternarsi di riflessioni antropologiche e sociologiche con racconti di vita scolastica ed esempi di attività didattiche che potrebbero servire da esempio a molti.

Troppo semplice, anche per i politicamente corretti, rifugiarsi nella comodità dello stereotipo. Così, nella vulgata comune, amplificata dall’immagine creata dagli operatori dell’informazione, via Anelli e dintorni sono state descritte più o meno come la Manhattan trasformata in carcere descritta da John Carpenter in Fuga da New York.

Fa bene all’anima, quindi, non solo scoprire che le maestre non vanno a scuola con elmetto e giubbotto antiproiettile, ma anche che, ad esempio, i genitori delle più svariate estrazioni vengono fatti entrare a scuola come “docenti”, per insegnare l’arte di preparare un tè o una serie di canzoni, restituendo loro, al contempo, dignità per la cultura di provenienza e autorevolezza agli occhi dei figli e dei loro compagni.


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