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Unità: Napoli, la scuola aperta delle «madri coraggio»

SAN GIOVANNI-BARRA profonda periferia est della città

19/11/2006
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l'Unità

SAN GIOVANNI-BARRA profonda periferia est della città. La scuola «Giulio Rodinò» è un cubo di cemento, ma loro - 150 donne, madri e mogli - arrivano per quel piccolo atto di ribellione che è un corso di cucito. «Ma da queste parti per i nostri ragazzi è rimasta solo la strada»

Vedi la scuola dall’esterno, le case che la circondano, i cumuli di monnezza sotto i viadotti dell’autostrada e ti viene un tuffo al cuore. Quale architetto avrà mai potuto concepire quelle brutture? Le case del dopoterremoto. I «Bipiani», come le chiamano da queste parti. Che da trent’anni prolungano la loro esistenza provvisoria. E la scuola, una serie di cubi di cemento circondati da cancellate. Chi l’ha progettata non si è posto neppure per un attimo il problema che in quei cubi avrebbero vissuto, studiato e giocato dei bambini. I bambini del quartiere San Giovanni-Barra, cuore sfregiato della parte est di Napoli.
Il paesaggio attorno è quello della enorme periferia partenopea. Caos, monnezza, vecchie concerie in disuso, capannoni di lamiera, sfasciacarrozze, laboratori abusivi. Tutto, insomma, ti parla di un degrado senza fine. È in posti come questo che pensi a Napoli e alle sue eterne emergenze e rischi di convincerti che forse questa città non potrà mai farcela. Che la sua china ormai è troppo ripida per essere risalita. Eppure dentro questo luogo che diresti perso per sempre c’è un’isola, un piccolo punto di resistenza civile contro l’indifferenza che partorisce degrado, il degrado che genera violenza, la violenza che ingrassa le camorre piccole e grandi. Un preside, un gruppo di insegnanti volenterosi, una intellettuale prestata al duro impegno dei drammi quotidiani. È proprio lei, Luisa Cavaliere, che mi guida nella scuola «Giulio Rodinò», quella dei cubi di cemento.
Il cronista avrebbe dovuto incontrare qualche mamma e poche alunne delle medie per parlare del loro «esperimento». Di mamme ne arrivano una quarantina. Sottraggono il loro tempo alla spesa mattutina, ai figli, alle piccole cose di ogni giorno per tornare a scuola e parlare della «sfilata». Sì una sfilata di moda. «Ma fatta con vestiti pensati e cuciti da noi», raccontano con l’orgoglio di chi sa che ha fatto una cosa importante. L’anno scorso, l’assessorato regionale alle pari opportunità, ha deciso di fare qui uno dei primi tentativi di apertura pomeridiana di una scuola. Di mettere insieme mamme, figlie e nonne, italiane e straniere immigrate (palestinesi, algerine, senegalesi) per fare qualcosa. Un corso di cucito, per iniziare. E poi scuola di fotografia e di cinema, con un regista, Vincenzo Marra, che ha messo a disposizione gratis la sua esperienza per bambini e adolescenti. «È venuta anche mia nonna», racconta una ragazzina. La nonna è lì, nell’atrio della scuola dove ci incontriamo. «Io questo ho fatto in tutta la mia vita, ho cucito. Quarant’anni con ago e filo in mano. E questo ho portato qui». «La creatività vesuviana non si può annullare - spiega invece l’artista Aulo Pedicini - mamme a allieve si sono conquistate l’operosità con le proprie mani, con queste visioni hanno liberato sogni ed emozioni». Hanno cucito tessuti multicolori. Progettato e realizzato abiti, e alla fine hanno fatto una vera sfilata. Accanto alle modelle vere, c’erano loro: le mamme e le figlie. Mostrano le foto dell’evento, con il preside Alessandro Filia sorridente. E tutto il quartiere ad ammirare Assuntina, Nannina, Concetta, Giusy, truccate e vestite come dive della tv. Piccole vittorie personali in un luogo che sembra costruito apposta per generare fallimenti umani.
Le donne sedute attorno al tavolo della scuola ti raccontano mille vite. Qualcuna ti parla del marito che «sta fuori. Deve stare lontano per almeno una decina d’anni». Nei quartieri periferici di Napoli c’è tanta gente «che sta fuori». Un’altra ti parla dei figli, del tempo che non basta mai. Il suo di marito è in casa, ha un lavoro, e proprio non voleva che la moglie andasse a perdere tempo «alla scuola». Lei, «capa tosta», invece ci andava di nascosto. «Ho fatto pure la sfilata (mostra le foto è una bellissima napoletana di 40 anni, ndr) e la sera sono tornata a casa con quel bel vestito. Mio marito mi fissava, “mi mettevo paura”. “Mo si incazza”, pensavo. E invece mi ha sorriso. Per la prima volta da quando siamo insieme mi ha fatto un sorriso». Due ragazzine, alunne della scuola, sono ancora felici di quelle ore passate di pomeriggio a cucire e inventare. «Le nostre amiche ci pigliavano in giro, ma noi ci siamo venute lo stesso». Chiedo cosa fanno le altre ragazze del quartiere nel tempo libero. «Stanno in mezzo alla strada. Qualcuna fa cose brutte. La droga e altre cose che non vogliamo dire». «Ho un figlio di 18 anni e quando esce la sera tremo», mi fa una mamma. «Qui non c’è un cinema, un teatro, per i ragazzi c’è solo la strada». «Mio figlio va al conservatorio. La sera sta in casa e suona». Parlano tutte, solo una bambina è in disparte. La avvicino. «Voglio fare l’attrice, lo dirò al regista Marra». Anche suo padre «sta lontano». E dovrà starci almeno per altri 18 anni. «Dopo la scuola vado dalle suore. Mangio, faccio i compiti. Mia madre non lavora più laggiù, dentro al capannone». Il «capannone» è una fabbrica abusiva di conserve e pomodori pelati. Diciotto ore al giorno con le mani nell’acqua bollente e nell’acido. Lavoro in nero. Salario euro 20. Anche lei, la bambina dagli occhi tristi che sogna il cinema, si guadagna da vivere. «Faccio le dimostrazioni per i parrucchieri. Sto nel negozio e provo sui miei capelli le pettinature nuove per farle vedere alle signore».
Piccole cose nel quartiere San Giovanni. Piccoli importanti passi per risalire la china. «Quando abbiamo iniziato questa esperienza - dice l’assessore Rosa D’Amelio - avevamo previsto la partecipazione di una quarantina di donne. Se ne sono iscritte 150. Speriamo di poter continuare, ma ci vogliono fondi, bisogna credere in questi progetti. Altro che esercito per le strade, la migliore difesa dalla cultura della camorra è la scuola aperta a tutti». Anche lui, un ragazzino di 14 anni, veniva qui di pomeriggio. Gli piaceva la fotografia, mi raccontano. Ed era bravo davvero. Ma un giorno è uscito prima. «Tengo da fare». Insieme ad altri scugnizzi tentò di scippare una suora. Lo presero. Ora è a Nisida, il carcere minorile, le sue insegnanti sono andate a trovarlo. «Non parla più». Quattordici anni, come il piccolo Giovannino Gargiulo. Nel 1998 gli fracassarono il cranio con pallottole dum-dum. Era il fratello di un pentito e andava ucciso. Era del quartiere e faceva una vita d’inferno. I capi della camorra di qui lo ridussero come uno schiavo prima di ucciderlo: faceva lo stalliere, accudiva i brocchi che il boss Figliolia usava nelle corse clandestine. Quando arrivai qui per raccontare questa storia, mi colpì una scritta con lo spray sul muro: «Chi entra nel Bronx ci rispetta».
La visita alla scuola finisce. Faccio la domanda d’obbligo di questi tempi: «Quanto è costato tenere aperta la scuola e fare i corsi, il cinema e la sfilata?». Cinquantamila euro, mi rispondono. Cinquantamila euro, quanto spende un piccolo boss per comprarsi il Suv. «’O Suv».

di Enrico Fierro inviato a Napoli


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