Unità: Maturità:chi boccia chi
Marina Boscaino
Ultimissime battute dell’esame di Stato, tempo di bilanci. Notizie varie nel campo del sistema dell’istruzione, alcune bizzarre. Leggo che il ministro Padoa Schioppa - accogliendo la proposta di Pietro Citati di raddoppiare lo stipendio agli insegnanti e sottolineando come da noi non si impari bene - guarda a sistemi, come quello coreano, dove la numerosità delle classi è molto più elevata che da noi, con 30 o 40 allievi: raddoppio degli stipendi e quasi raddoppio degli alunni. Un’ipotesi niente male. Intanto l’Invalsi - l’Istituto Nazionale per la Valutazione del Sistema Educativo di Istruzione e di Formazione - ha già raccolto i risultati parziali, relativi a un campione di 15 mila studenti. Pur nella non completezza della documentazione, la prima evidenza riguarda il numero degli studenti non ammessi: si tratta del 4% dei candidati. Una novità assoluta.
Dal 1999 - con la riforma Berlinguer - l’ammissione all’esame di Stato era infatti automatica. Una novità che si aggiunge al ripristino della commissione mista - 3 insegnanti interni e 3 esterni - cancellata nel 2002 dal governo Berlusconi che - con memorabili rispetto e cura della scuola pubblica - decise di eliminare gli esterni per poter risparmiare sulle loro prebende. Dai dati che finora l’Invalsi ha elaborato si evince poi che 6 studenti su 100 hanno raggiunto il massimo della votazione (100 centesimi), mentre il numero dei bocciati - cui vanno aggiunti i non ammessi - supera di poco il 2.5% del numero complessivo dei candidati. Sommando questo dato con quello dei non ammessi (4%) arriviamo alla conclusione che l’esame è stato affrontato e superato solo dal 93,5% degli studenti, mentre l’anno scorso venne superato dal 96.5% dei candidati e il 10% arrivò a 100 centesimi.
A quanto pare l’obiettivo del ministro dell’Istruzione Giuseppe Fioroni di rendere «più serio e selettivo l’esame di Stato» è stato centrato. Ma l’osservazione di questi primi dati - che promettono di non essere smentiti, considerando le notizie che arrivano dalle sedi locali - fa nascere non poche valutazioni sulle quali vale la pena di soffermarsi. Misurare l’efficacia di un sistema scolastico in termini di successo o insuccesso degli studenti è un’operazione rischiosa. Perché centra l’attenzione su un aspetto - quello della valutazione - talmente vischioso e sfuggente e, d’altra parte, soggetto a variabili così imprevedibili da poter difficilmente costituire un parametro attendibile. Ferma restando questa premessa obbligatoria, proviamo a commentare da questo punto di vista i dati che abbiamo a disposizione. La situazione ci dice che - a fronte di regole più rigorose - il sistema dell’istruzione vacilla, perde colpi. Perché - da qualsiasi punto di vista si osservino questi dati e qualunque sia il pregiudizio sull’attendibilità della valutazione - la bocciatura rappresenta comunque un fallimento del sistema rispetto all’auspicabile obiettivo di diffondere conoscenze e competenze a quanti più studenti possibile: competenze e conoscenze che - è bene ricordarlo ai sostenitori della finalità selettiva della scuola - saranno restituite alla società in termini di democrazia, di cittadinanza, di libertà. Rendendo la società stessa più ricca e in grado di rispondere alla complessità del mondo. E allora non riesco a comprendere fino in fondo il discorso che Lodoli ha fatto pochi giorni fa su «la Repubblica». Un discorso che rileggeva il progredire dell’insuccesso all’esame di Stato - anche tra i suoi alunni, “sfigati” della periferia romana - esclusivamente in termini di studenti e genitori: un bilancio condivisibile (gli studenti nati «col telecomando nella culla e il telefonino nella tasca del grembiule»; i genitori che «non sono più della razza forte e antica che sperava di avere un figlio alla Sapienza e faceva sacrifici di ogni tipo per arrivare a piangere il giorno della laurea») nei suoi contenuti, ma ellittico di una componente. I mutamenti sociologici sono sotto gli occhi di tutti e nelle analisi di moltissimi. Essi rappresentano itinerari e direzioni di cui occorre tener conto con realismo: il mondo non è come lo si vorrebbe, e questa ne è una delle tante dimostrazioni. Il sonno della ragione genera mostri e il sogno del consumismo acritico pure di più, riverberandosi automaticamente in declino intellettuale. Ma la scuola dov’è? Dove sono gli insegnanti? Prostrati, ammutoliti davanti alla drammatica constatazione di un quadro così disarmante? E come pensa la scuola di far fronte al suo compito, che è anche quello di intercettare proprio i più deboli, quelli che pagano più a caro prezzo la marginalità di una sottocultura che maciulla coscienze, azzera curiosità, umilia l’immaginazione? Gli esami, scrive Lodoli, «hanno certificato un’evidente confusione di base, la difficoltà diffusa a connettere le nozioni, a costruire un ragionamento sensato, a dimostrare una consapevolezza». La scuola - che evidentemente ha fallito, anche perché a lei viene affidato il raggiungimento degli obiettivi qui traditi - si limita a registrare tristemente, nelle facce dei commissari e nelle parole di Lodoli, nel numero aumentato delle bocciature, infine, la propria incapacità. Mani in alto: una resa completa. Tanto più quando Lodoli conclude: «La paura, qui in periferia, è che molti ragazzi non vogliano ripetere l’anno, che abbandonino la scuola e si perdano per strade desolate. Da settembre bisogna ripartire con le idee chiare, spiegare con forza che la vita è dura, che nessuno più regala niente fuori dalla scuola, ma ormai anche qui dentro».
Il paradosso è evidente. Ma da settembre, forse, sarebbe più sensato aiutare i ragazzi a comprendere che non è la speranza che qualcuno regali loro qualcosa che deve muoverli, né fuori né dentro la scuola. Alimentare il sogno dilettantistico del successo facile, del guadagno senza sforzo ha prodotto danni notevoli, sia dal punto di vista dei destini individuali che di quelli nazionali. A settembre la scuola deve trovare la spinta per ripensare se stessa, soprattutto rispetto alle condizioni di marginalità, bersaglio inerme e privilegiato di un consumo acritico, di una sottocultura becera e di una sfilza di bocciature (che spesso preludono all’abbandono) che non rappresentano certamente una soluzione valida a rispondere ai problemi che queste condizioni ci pongono. Con l’aiuto auspicabile, ma finora timido, della politica e dell’amministrazione occorre - prima di qualunque pur condivisibile riforma della coda - mettere le mani al corpo ormai imbalsamato, paralizzato, di una scuola che stenta sempre più a incarnare uno strumento di emancipazione, di creazione di coscienza critica. Con una riflessione seria sul chi (gli insegnanti), il cosa (quali culture) e il come (le metodologie didattiche, la relazione educativa) occorre impegnarsi per far fronte all’emergenza - del sistema e della società - di cui l’aumentato numero di bocciature non costituisce che il simbolo. Che rischiamo di archiviare con il malcelato orgoglio di chi sa di aver puntato sulla serietà e sul rigore, elementi che mettono al riparo dall’oggettività dell’analisi e dal rischio dell’impegno per individuare soluzioni.