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Unità: Ma io dico: il sindacato prima di tutto

Paolo Nerozzi

26/02/2007
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l'Unità

In queste settimane diversi esponenti della Cgil hanno espresso i propri dubbi, le proprie incertezze e finanche le proprie aspettative in vista del passaggio che dovrebbe portare allo scioglimento dei Ds e alla nascita del nuovo Partito Democratico. Legittimamente, in quanto uomini e donne di sinistra, chi è iscritto ai Ds sarà chiamato ad una scelta non facile, per ciò che la propria storia rappresenta, per la funzione che abbiamo.

Personalmente ciò che penso sul Pd è noto: il lavoro, la sua dimensione sociale, l’essere motore di emancipazione, di libertà e di costruzione di identità collettive, non può che vivere e crescere all’interno di una forza autonoma della sinistra, socialista e aperta alle nuove culture critiche.

Quel che più mi preme però, approfittando dell’ospitalità dell’Unità, è sottolineare come, indipendentemente dalle scelte che ognuno di noi farà, le compagne e i compagni della Cgil hanno oggi una responsabilità in più all’interno di questo dibattito: salvaguardare fino in fondo l’essenza di una soggettività sociale che la Cgil, soprattutto negli ultimi anni, ha espresso, forte - a differenza di questo o quel partito - di essere parte essenziale del “gorgo” entro cui il mercato e la società sono già mutati.

La nostra identità, il nostro essere di sinistra infatti è oggi sempre più dato dal nostro essere uomini e donne che del lavoro, della sua difesa, della sua costruzione collettiva e democratica, se ne sono fatti portatori.

Portatori di una visione che deve essere sempre più chiave di lettura del mondo, delle sue ingiustizie, del vuoto di rappresentanza che la politica dei partiti non è riuscita a colmare.

Non penso - sia chiaro - che la risposta alla crisi della politica e della sinistra italiana sia un ritorno al pansindacalismo; penso però - e mi batterò fino allo stremo per difendere questo punto - che in questi ultimi 15 anni sia maturato un bene comune (per noi, per la sinistra, per il Paese) che è la Cgil e l’autonomia del sociale, che non può essere coartata dentro vecchi modelli. Ritenere che il nostro essere espressione di un’autonoma visione del mondo o ancor più che l’unità sindacale siano oggi più garantiti perché tutti dentro il Partito Democratico è allora un’idea irreale, carica più di rischi che altro, e figlia di una cultura tipica della terza internazionale che tanto male ha fatto al movimento operaio e democratico. E anzi se oggi - in un clima diverso e con un rapporto più forte e più stretto tra noi e le altre confederazioni rispetto anche al recente passato - vi è un rischio vero, per l’unità sindacale, è proprio quello rappresentato da una novella pretesa dei partiti a trasformarci in cinghia di trasmissione.

Altro dovrebbero essere, allora, il terreno di confronto fra noi. A partire da che lettura diamo dei grandi processi in corso. Personalmente sono sempre più convinto che la globalizzazione, così come oggi si presenta forte di un potenziale tecnologico e finanziario inedito, ha permesso al mercato di dispiegare tutta la propria intrinseca aggressività, perché sono stati “corrosi” gli strumenti con cui chi subiva le ingiustizie del mercato cercava di contrastarne potere ed arbitrarietà: le grandi identità politiche collettive (laiche per definizione) e lo stato nazionale.

La crisi della sinistra, così come le diverse risposte reazionarie, localiste, fondamentaliste a questo stato di cose, nascono - banalizzo - da ciò.

L’essere forza riformista e al contempo radicale ha fatto circuito proprio nel momento di maggior bisogno. Il “nostro problema” come forza sociale radicata nel lavoro, è allora il problema di chi - per citare Caillè, un socialista francese certo non estremista - ha rinunciato ad «una visione dialettica tra mercato e socialità, tra governo dei poteri e redistribuzione degli stessi, tra impresa e lavoro».

In questa semplice affermazione di un esponente socialista sta tutta l’ipocrisia di un gruppo dirigente che ha metabolizzato lo scioglimento del Pci senza accettare fino in fondo l’essenza del socialismo europeo, ed oggi è pronto a divenire parte di una forza democratico-liberale. Quando molti di noi hanno concordato sul fatto che fosse giunto il momento di sciogliere il Pci, e tutto ciò che esso rappresentava in termini di ideali e di modelli di governo, era per rimetterci in discussione. Dando atto che il socialismo europeo aveva alla fine saputo tenere meglio insieme redistribuzione, giustizia e democrazia, ritenevamo possibile l'incontro tra le migliori culture del lavoro, marxiste, libertarie, ambientaliste. Perché il tema di un lavoro sempre più mercificato, di un mondo sempre più ingiusto, di un modello produttivo ormai incompatibile con la stessa sopravvivenza del genere umano, necessitavano (e necessitano) di un grande partito impegnato a governare l’eterna dialettica tra le logiche del profitto e quelle della cittadinanza, assumendo queste ultime come principale terreno di rappresentanza.

Questo è quel che deve contare per noi: alla crisi della rappresentanza del lavoro non si può rispondere andando oltre il socialismo, perché il socialismo è espressione di questi bisogni e di queste idealità. Alla crisi dei Ds, che è anche crisi di rappresentanza (e forse dovremmo tutti interrogarci sul perché sempre meno dirigenti della Cgil sono iscritti ad un partito) e crisi di una capacità di “visione” degli interessi è utile aggiungere l’orpello di un contenitore più ampio, nella speranza che i problemi si “diluiscano” e diventino meno visibili (ma non per questo vengano risolti)?

Certo, nella palude della politica italiana, ogni offerta politica, anche quella del Pd, può avere un successo, una ragione, un senso. Ma è questo il campo di ricerca e di impegno che può interessare a tanti di noi, alle prese tutti i giorni con la necessità di ricostruire una sinistra forte e grande che contribuisca a “irrobustire” l’Unione e il Governo, per rendere più forte il lavoro e chi rappresentiamo?

Ritengo di no, e ritengo che a tale ricerca i Ds non possano sottrarsi. Per questo voterò no alla mozione del compagno Fassino perché i Ds possano esistere per cambiare, fare i conti con la loro identità, ma soprattutto contribuire alla costruzione di quel “nuovo socialismo” che non è un qualcosa di vecchio da buttare, come molti esponenti della Margherita ritengono, ma il futuro. Nostro e di chi ancora deve venire: giovani, lavoratori, pensionati.

Segreteria Nazionale Cgil


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