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Unità: Le Macerie di Cana

Il mondo e il medioriente

31/07/2006
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l'Unità

Umberto De Giovannangeli

Nulla sarà più come prima. Può sembrare una frase di circostanza, un’affermazione dettata dall’emozione del momento, dall’orrore e dall’indignazione suscitate dalle immagini sconvolgenti di un palazzo ridotto a un cumulo di macerie sotto le quali giacciono i corpi martoriati di civili innocenti, tra i quali 37 bambini. Ma non è solo l’emozione e l’indignazione che portano a dire che dopo l’eccidio di Cana nulla sarà più come primaQuei piccoli corpi straziati dicono che non è più il tempo di disquisire sull’uso «sproporzionato» o adeguato della risposta militare di Israele all’attacco di Hezbollah. Non è più tempo. Come non è più tempo di lanciare da parte della comunità internazionale gli stanchi, ripetitivi, inermi appelli alla «moderazione». Non è più tempo. Perché un Paese, il Libano, è ridotto a un ammasso di rovine. Perché un popolo è stato trasformato in un esercito di sfollati costretti alla ricerca, sotto le bombe e i cannoneggiamenti, di un improbabile rifugio. Non c’è più molto tempo per evitare che l’escalation militare che oggi sta devastando il Libano non divenga l’innesco che fa esplodere la polveriera (nucleare) mediorientale. La richiesta di un cessate-il-fuoco immediato, di una immediata tregua umanitaria, non è più una opzione tra le tante in campo. È la via obbligata per una comunità internazionale che non voglia assistere non da spettatrice ma da complice ad una spirale di violenza che finirà, se non spezzata ora, subito, per travolgere anche Israele.
Perché le bombe di Cana raccontano anche di una impotenza politica mascherata da un esercizio di potenza militare che non rende più sicuro lo Stato ebraico. Non siamo in guerra con il popolo libanese, siamo in guerra contro un nemico (Hezbollah) che ha come obiettivo dichiarato quello di distruggere Israele, ripetono in queste ore così drammatiche i leader israeliani. Non è più tempo. E non basta a coprire l’orrore di Cana l’affermazione, ribadita dai leader israeliani, che da quel palazzo raso al suolo i miliziani Hezbollah sparavano razzi contro le città della Galilea. A piangere quei morti, a devastare gli uffici dell’Onu, a invocare giustizia e protezione da un mondo silente non sono i guerriglieri di Hassan Nasrallah, ma una popolazione disperata, donne, uomini libanesi che si sentono carne da macello.
Non c’è più tempo per concedere tempo - due settimane - a Israele per chiudere i conti con Hezbollah, come richiesto al segretario di Stato Usa Condoleezza Rice dal premier israeliano Ehud Olmert. Nulla sarà più come prima. Una constatazione che non deve tradursi in una ammissione di impotenza. Gli Stati Uniti, l’Europa hanno gli strumenti per agire sulle parti in conflitto perché si arresti questa escalation dell’orrore. Li usino. Prima che sia troppo tardi. L’orrore per questa strage di innocenti può anche innescare quella determinazione, fino ad oggi del tutto insufficiente, da parte della Casa Bianca e delle cancellerie europee per imporre le ragioni del dialogo, della trattativa, sull’illusione che esista una scorciatoia militare per neutralizzare Hezbollah o per risolvere la questione palestinese. I bombardamenti a tappeto, la distruzione del Libano, gli oltre 700 civili uccisi in diciannove giorni di guerra, i bambini martoriati di Cana non hanno indebolito Hezbollah e il suo capo, il cinico e ambizioso Nasrallah, ma li hanno rafforzati, innalzandoli agli occhi delle moltitudini arabe e dello stesso popolo libanese, al ruolo di eroi della “resistenza” al “nemico sionista”.
Imporre una tregua immediata: è il passaggio obbligato, il banco di prova decisivo su cui misurare non solo la credibilità ma la moralità stessa di un Occidente che si vuole portatore di civiltà, di democrazia, di rispetto dei diritti dell'uomo.
Quei diritti giacciono oggi sotto le macerie di Cana. Di fronte a quelle immagini agghiaccianti nessuno può dire «non ho visto», «non avevo percezione della gravità...». Quei morti vanno onorati. E l’unico modo per farlo è di evitare che altre Cana possano determinarsi. Quei morti non sono un “danno collaterale” ad una guerra giusta, obbligata, di difesa.
Ventiquattro anni fa, quattrocentomila israeliani riempirono la grande Piazza dei Re a Tel Aviv (oggi piazza Rabin): fu una rivolta morale quella che riempì la Piazza: una rivolta contro il massacro di Sabra e Chatila. Ventiquattro anni dopo, una grande democrazia, come è Israele, è alle prese con un evento tragico, sconvolgente. Ingiustificabile. Questo è l’eccidio di Cana. Non è più tempo di negarlo.


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