Unità: Le due facce dell’atipico
L’Isfol racconta, ad esempio, di come esistano 150 mila adolescenti formalmente soggetti ad obbligo ma che in realtà restano fuori da ogni canale formativo
Bruno Ugolini
I pessimisti e gli ottimisti. Sono i due stati d’animo che percorrono la condizione dei lavoratori atipici, molto spessi precari. È una constatazione che può affiorare dalla lettura del rapporto Isfol 2007 (l’Istituto che si dedica alla formazione dei lavoratori). C’è ad esempio chi è portato a considerare il lavoro atipico come un trampolino di lancio nella vita attiva e nella crescita professionale. Il 28% degli «atipici» ritiene, infatti, di avere in prospettiva un lavoro di tipo permanente ed il 7% considera la «precarietà» come una fase di necessaria crescita professionale. Sono esempi di «flessibilità costruttiva». Per molti altri tale flessibilità è invece una «trappola» dalla quale risulta impossibile uscire. Il loro lavoro è percepito come «problematico» a causa di una quota progressivamente crescente di precarietà. Fatto sta che la mancanza di prospettive di carriera decreta il fattore di maggiore (54,5%) insoddisfazione degli occupati italiani. Insomma i nuovi lavori corrispondono sempre meno alle aspettative degli individui. Lo scoraggiamento nasce spesso dalle scarse prospettive di carriera più che dalle scarse retribuzioni.
Sono cifre e dati che testimoniano come sia variegato il mondo degli atipici e come non valgano «contro la precarietà» le ricette onnicomprensive emerse anche nel recente dibattito sul protocollo per rinnovare il welfare italiano. Tale dibattito, giunto nelle aule parlamentari, ha finito con l’offuscare i passi avanti compiuti e approvati dalla maggioranza dei lavoratori, Si è giunti ad etichettare tale protocollo come un regalo fatto alla Confindustria. Assegnando in tal modo agli stessi sindacati e ai lavoratori che avevano votato «sì», un ruolo paradossale di mera acquiescenza alle volontà padronali.
Meglio sarebbe stato, per la sinistra, consegnare al Paese un messaggio di fiducia, di positivo rapporto col mondo del lavoro e con chi lo rappresenta. Magari rilanciando l’iniziativa su altri terreni, ad esempio su uno degli aspetti posti maggiormente in rilievo dal rapporto Isfol. Esso riguarda un tema attorno al quale fioriscono convegni, dibattiti, perorazioni: quello della formazione, della conoscenza. Ovverosia strumenti che diano proprio ai precari (giovani ma anche anziani) la possibilità di affrontare con strumenti adeguati le sfide di un lavoro innovativo. Qui infatti il nostro Paese accusa notevoli ritardi. L’Isfol racconta, ad esempio, di come esistano 150 mila adolescenti formalmente soggetti ad obbligo ma che in realtà restano fuori da ogni canale formativo. A questi occorre aggiungere 40 mila minorenni che, nonostante siano stati assunti con contratto di apprendistato, di fatto non svolgono le attività di formazione previste dalla legge. Non basta: solo il 20% dei 600.000 apprendisti svolge attività di formazione, solo il 40% dei giovani che terminano la scuola secondaria ha trovato nella scuola e nell’Università informazioni adeguate riguardo alle opportunità future di studio e di lavoro. E per quanto riguarda ad esempio la formazione permanente che dovrebbe coinvolgere anche gli adulti? Ben il 60% della popolazione dichiara di non essere a conoscenza dei luoghi deputati alla formazione per gli adulti. Tale scarsità di informazione produce, oltre che una ridotta partecipazione alle attività formative, il perpetuarsi di scelte legate alla propria condizione sociale. Uno sbarramento alla voglia di emancipazione.
C’è, a proposito di sbarramenti, un posto particolare assegnato alle donne. Ben 10 milioni di donne in età lavorativa non lavorano e non cercano lavoro. Il tasso di attività femminile è del 47%. E così l’obiettivo fissato dal Consiglio Europeo nel 2000 a Lisbona è disatteso. Esso fissava infatti al 60% il tasso di attività femminile da raggiungere nel 2010. Un’impresa impossibile per l’Italia visto il 47% di oggi. Le donne del resto soffrono di altri handicap: hanno retribuzioni inferiori a quelle degli uomini anche a parità di contratto e di orario. Godono però di un primato particolare: il 63% di loro accede al lavoro con un rapporto «atipico».
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