FLC CGIL
Contratto Istruzione e ricerca, filo diretto

https://www.flcgil.it/@3794457
Home » Rassegna stampa » Rassegna stampa nazionale » Unità-La mortificazione del lavoro

Unità-La mortificazione del lavoro

La mortificazione del lavoro LUIGI CANCRINI Amalia Caro professore, sento di dover scrivere anch'io su di un tema che ritengo debba esser più dibattuto, quello della precarietà ...

14/03/2005
Decrease text size Increase text size
l'Unità

La mortificazione del lavoro

LUIGI CANCRINI

Amalia

Caro professore,
sento di dover scrivere anch'io su di un tema che ritengo debba esser più dibattuto, quello della precarietà del lavoro. Una cosa, vorrei precisare, che non sono solo i giovani, che si ritrovano a fare i conti con la precarietà/disoccupazione, ma anche persone già mature, con esperienza, che per ragioni, le più disparate, si ritrovano ad essere senza più lavoro fisso. Io sono una mamma di 46 anni che un lavoro fisso l'ha avuto per quasi 15 anni. Sono 7 anni che ogni due mesi, un mese della mia vita è dedicato alla lettura degli annunci per la ricerca del lavoro, sono costretta, per necessità, ad accettare contratti anche di un mese. Fare i conti con il terrore di non poter garantire un futuro ai propri figli, non è descrivibile. Veder vanificato l'investimento di energie in corsi, ricerche, impegno sul posto di lavoro, ogni qualvolta scade un contratto toglie qualsiasi entusiasmo a riprovarci ancora... ma le alternative non ci sono. Vivere nell'attesa di uno squillo di cellulare per giorni e giorni per fissare un colloquio è snervante come aspettare che in una sala d'aspetto che il medico ti dica quanto e se ti resta ancora da vivere. Comunque non voglio ribadire cose già dette. Voglio solo ricordare che le donne sono soprattutto le vittime di questa situazione, soprattutto le mamme delle quali non c'è rispetto in quanto tali perché in quanto tali si crede non possano "garantire" i requisiti richiesti. Le donne devono "tornar fuori" in tutto e per tutto e delle donne bisogna ricominciare a parlare, devono ricominciare a parlare tra loro di sé... e del loro ruolo nella società. Non voglio farla lunga.... Una domanda: come mai la descrizione mediatica, soprattutto se si tratta di "nera", di colui che, suo malgrado, è un lavoratore precario/flessibile è: ...svolgeva lavori saltuari? Perché i media li chiamano ancora lavori saltuari? Si chiamano precari, flessibili o saltuari? Qual è il termine giusto per dare dignità ad un lavoratore, anche solo formale?
Grazie.

Credo che la ragione di questa scelta di termini sia legata soprattutto all'effetto di alone (l'insieme di emozioni indistinte suggerite dalla parola e non necessariamente legate al suo significato letterale) che ogni parola ha. Dire lavoro "precario" significa insistere sulla prepotenza subita dal lavoratore, dire lavoro "saltuario" significa sottolineare la debolezza della sua preparazione professionale. Una persona che ha fatto solo dei lavori saltuari non è affidabile, suggerisce incostanza dell'applicazione e povertà di risultati. La scelta del termine aiuta a spostare la responsabilità dal datore di lavoro al lavoratore, insomma, sdrammatizza il problema sociale, rende più difficile la sua utilizzazione politica. Anche di questo c'è bisogno, infatti, per quell'operazione di "mistificazione" (nel senso stretto del termine proposto da Marx) su cui ci si basa oggi per difendere l'idea di una flessibilità governata da destra: fatta, in sostanza, di mortificazione e di sfruttamento dei lavoratori. Perchè ci sarebbero in realtà molti modi di attuare una flessibilità articolata sull'idea del progetto: come dimostrato da quei governi europei, più seri di questo, che hanno legato, in Europa, l'idea del lavoro a progetto a quella di ammortizzatori sociali del tipo indennità di disoccupazione. È per evitare discorsi di questo tipo, in fondo, che il governo Berlusconi ha interrotto qualsiasi tentativo di dialogo con le organizzazioni sindacali. Perché reintrodurre l'idea del lavoro a progetto senza offrire al lavoratore nessun tipo di programma o di garanzia significa di fatto tornare al tempo in cui il rapporto fra capitale e lavoro non conosceva mediazioni riconosciute consensualmente. Nell'Inghilterra del 1844 descritta da Engels o nella Puglia dell'immediato dopoguerra descritta da Di Vittorio, dove l'unico tramite fra l'operaio (o il bracciante) e il padrone era il caporale pagato dal padrone e custode fedele dei suoi interessi. La mancanza di diritti contrattati con le rappresentanze dei lavoratori permetteva lì di tenere basso il costo del lavoro e alta la flessibilità: centrando gli obiettivi di quella che si propone oggi come una new economy, una economia nuova o neoliberista e che è di fatto espressione di un'economia estremamente old, vecchia, cioè e retriva. Indegna di un paese civile.
La ragione per cui questo tipo di "deregulation" (una parola, anche questa, che dà un effetto d'alone quasi positivo, sottolineando interessi ed aspirazioni quasi libertarie e nascondendo, invece, la violenza e la spregiudicatezza di chi ha più potere e lo usa) ricade in modo più pesante sulle donne che gli uomini è anch'essa del tutto ovvia. Per ragioni naturali, legate in particolare alla gravidanza, al parto e alla cura del bambino, piccolo e un po' più grande, il bisogno di proteggere la continuità del lavoro di una donna è più forte e più pressante. Una giovane donna che vive mettendo in fila uno dopo l'altro dei lavori a progetto non può permettersi di avere un figlio e può temere con buone ragioni, a volte, di far sapere che si sposa o che convive stabilmente con un uomo perché, a parità di altre condizioni, l'idea che lei potrebbe, un giorno o l'altro, aspettare o avere un bambino rende meno forte la sua posizione lavorativa. Di progetto in progetto, il datore di lavoro può immaginare che il suo sia un investimento formativo se la persona cui affida un certo compito promette di svolgerlo ancora per un certo tempo e utilizza inevitabilmente, come criterio di scelta, quello legato alla disponibilità nel tempo del singolo lavoratore. Il massimo dell'utilità lo si raggiunge combinando deregulation e continuità, insomma, e la donna si trova in una posizione che è mediamente ancora più svantaggiata di quella degli uomini che sono suoi coetanei ai suoi stessi livelli di formazione e di precarietà.
Scriveva più di un secolo fa Marx, nella prefazione alla edizione de Il Capitale, che sarebbe sciocco attribuire la colpa di questo stato di cose a quello che noi oggi chiamiamo datore di lavoro e che veniva definito allora come capitalista o come "padrone". Nello scenario disegnato dai rapporti di forza, i ruoli reciproci del lavoratore e di chi gli dà lavoro sono obbligati nella misura in cui un imprenditore che volesse muoversi in modo più corretto d'altri potrebbe essere meno competitivo di loro. Il problema, infatti, non è morale ma politico e deve essere affrontato a questo livello. Definendo regole a cui tutti devono attenersi e definendo, nello stesso tempo, l'insieme dei provvedimenti necessari per assicurare che, all'interno di quelle regole, non si determinino situazioni di debolezza o di subalternità inaccettabili del tipo di quelle che questo governo ha costruito prima per gli immigrati (la legge Bossi-Fini e l'idea del permesso di soggiorno che dura solo per il tempo in cui lavoratore straniero viene utilizzato) e poi per gli italiani (con la legge 30 cui con molto cinismo da destra si dà ancora il nome di un economista come Biagi). Due leggi che devono essere abolite appena possibile se vogliamo ridare dignità al nostro mercato del lavoro.
Qualcuno risponde, a questi discorsi, dicendo che la necessità di abbattere il costo del lavoro aumentandone la flessibilità è legata al bisogno di mantenere competitiva la nostra economia di fronte al crescere di quella cinese o indiana. Quello che si dimentica in questo modo, tuttavia, è il fatto che un'economia come la nostra è competitiva solo in termini di qualità e che l'economia di un paese come il nostro si mantiene vitale soprattutto se quella che si mantiene alta è la capacità d'acquisto di tutti. Falsità grossolane come quelle di un governo che spaccia per nuovi occupati gli immigrati cui si dà il permesso di soggiorno o che moltiplica per tre il numero delle persone occupate in un anno quando la stessa persona, nello stesso anno, viene assunta per tre volte con progetti che durano magari sei mesi in tutto (come denunciato nei mesi scorsi da Eurispes e dal suo direttore Fara) non sono più sufficienti, infatti, a nascondere le difficoltà che stiamo vivendo tutti, individui e famiglie, in quelli che sono probabilmente gli anni più duri, per gli italiani, dai tempi dell'immediato dopoguerra. Il neoliberismo e la deregulation berlusconiano non servono purtroppo ad arricchire il paese. Arricchiscono solo una minoranza limitata di persone che i soldi li portano altrove. Finché noi glielo permetteremo, però, perché in Italia, per fortuna, si vota ancora. Fra pochi giorni.


La nostra rivista online

Servizi e comunicazioni

Seguici su facebook
Rivista mensile Edizioni Conoscenza
Rivista Articolo 33

I più letti

Filo diretto sul contratto
Filo diretto rinnovo contratto di lavoro
Ora e sempre esperienza!
Servizi assicurativi per iscritti e RSU
Servizi assicurativi iscritti FLC CGIL