Unità: La maturità, quei risultati che continuano a non servire a niente
Diffusi i risultati dal ministro. A parte la demagogia e i proclami, la destra non ha detto nulla sul futuro
Marina BoscainoGelmini ha diffuso i dati ufficiosi, non molto differenti da quelli degli scorsi anni, relativi all’esito dell’Esame di Stato: lo 0.9% degli studenti ha conseguito il 100 e lode; il 6.6% 100; il 9.2% dal 91 al 99; il 15.5% 81-90; il 24.8% 71-80; il 30.6% 61-70; il 12.3% ha preso il minimo, 60; donne migliori degli uomini. Valentina Aprea, in occasione dell’inizio degli Esami di Stato, comunicò la sua convinzione che “occorre intervenire sulle materie, diminuirle e insegnarle meglio”, segnando un passo originale rispetto all’ipertrofia che caratterizzò il periodo Moratti, con tutte le sue belle continue proposte di “educazioni”: ai sentimenti, stradale, sessuale.
Le domande sorgono spontanee, e sono più di una: la proposta di diminuzione va a incrementare il progetto di indebolimento della scuola perseguito dal centro destra a suon di tagli e di provvedimenti, quali quello sul (falso) innalzamento dell’obbligo? In secondo luogo: quali materie suggerirebbe di tagliare il presidente della Commissione Cultura? La filosofia? La matematica? Le scienze o le letterature? Infine, come si concilierebbero le 33 ore settimanali di Costituzione e Cittadinanza alle superiori, recentemente annunciate dal ministro?
Essere stata membro della Commissione di Esame di Stato - come tutti gli anni - mi ha dimostrato ancora una volta come quell’esame, - proprio perché ben pensato, ben definito - segnali il fallimento dei paradigmi su cui la scuola - a dispetto dello scorrere del tempo - continua a funzionare. E oggi che abbiamo gli esiti della sessione, possiamo archiviare per l’ennesimo anno una prova che si connota sempre più come lo splendente tetto di una casa dalle fondamenta incerte. Non sembra, quella della Aprea, la ricetta giusta per far fronte alla situazione; e non solo per il legittimo sospetto cui si alludeva. Quanto, soprattutto, per la mancanza di un respiro più ampio, che tenga conto delle differenze tra scuola e scuola, che vanno ad insistere su condizioni sociali diverse in partenza, amplificandone la portata discriminatrice: il maggior numero di bocciati si registra nei professionali. L’idea – nella valutazione dei risultati e di alcune evidenze, come il maggior numero di 100 nelle regioni meridionali che getta un pericolo sospetto sui metodi di valutazione, quando non sulla composizione delle commissioni – di prove d’esame tutte scritte e valutate centralmente, risolverebbe solo formalmente il problema delle discrepanze che esistono; e soprattutto tenderebbe a omologare realtà e situazioni che non sono affatto identiche, penalizzando presumibilmente i più deboli e gli anelli più deboli del sistema. Non c’è bisogno di ridurre il problema dell’ultima prova del percorso superiore ad una mera questione di valutazione per avere perfettamente presente l’entità delle varietà regionali dei risultati didattici reali. Ripeto, reali. L’Esame di Stato - a cominciare dalla I prova scritta, le cui tracce, spesso suggestive e affascinanti, sono rigorosamente improntate ad una lettura filosofica dell’esistente, preclusa agli studenti dei tecnici e dei professionali, nonché ad ambiti disciplinari da essi poco praticati - risulta la raffigurazione pelosa di un tentativo di omologazione democratica, che sottolinea oltremodo il divario; tant‘è vero che il maggior numero di successi si registra al liceo classico.
Verso la fine di quest’anno scolastico, come mi capita sempre, i miei alunni di III liceo classico, iniziato il ‘900 - nel quale ci siamo addentrati con curiosità e attenzione, ma con approssimazione e fretta inevitabili, avendo consumato tempi ed energie sulla revisione del secolo precedente e dei suoi giganti della letteratura - si sono domandati come mai una produzione che – più che quella passata – offriva loro ipotesi di risposte ai perché dell’oggi, fosse confinata in tempi così contratti. E si ha un bel dire che non c’è oggi senza ieri: Montale, Moravia, Pasolini, Calvino, Pirandello sollecitano la loro curiosità e alimentano la loro coscienza critica più di Tasso o Poliziano, pur fondamentali. E, tranne il “caso Dante”, proposto alla maturità per ben 2 volte, l’analisi del testo della I prova ha sempre coinvolto autori del ‘900. Non credo, francamente, che la scuola possa affidarsi un compito differente da quello - già enormemente impegnativo - di tentare di rispondere agli attacchi del “fuori” affrontando i numerosi “perché” dei ragazzi attraverso gli strumenti che ha a disposizione e una infaticabile ricerca nel campo della relazione. Ma ci vogliono preparazione, orgoglio, pazienza, saggezza; desiderio di far emergere la coscienza critica che il paludamento di tronisti, veline e falsa informazione tendono a sopire. La cultura esprime il suo valore aggiunto solo se serve ad arginare la deriva qualunquista e a fornire possibili chiavi interpretative della complessità.
Non sono alchimie d’orario né improvvide decurtazioni che possono raggiungere questo scopo. Né saranno formule suggestive - ma mai applicate realmente nella maggior parte dei casi - a farci uscire dal gap: pluridisciplinarità e capacità di fare collegamenti sarebbero strumenti efficaci se destinati intenzionalmente alla preparazione da parte dell’insegnante alla conduzione consapevole di un colloquio orale, spesso invece ispirato solo formalmente a quelle parole d’ordine. Occorre la volontà di scompaginare paradigmi immobili, cercando chiavi alternative nel cosa e nel come insegnare.
La scuola sta cadendo a pezzi. E noi rischiamo, il prossimo anno, di celebrare i risultati - identici a quelli dell’anno precedente - di un esame che ci fa intravedere la scuola come potrebbe essere e ci ammonisce su come non è.