Unità: La creolina, la scuola e la cultura dello sfregio
Luigi Cancrini
La ’ndrangheta, dicono i poliziotti e i giornali, controlla e sfrutta i traffici di cocaina utilizzando piccole reti locali di albanesi (siamo in Lombardia) o di tunisini. Qualcuno di questi finisce in galera ogni tanto, ne esce e ricomincia. I capi no, non vengono raggiunti. Nello stesso tempo, in Calabria, piccole bande di ragazzi pagano, per evitare di essere colti sul fatto, una manovalanza di ragazzi di strada (ce ne parla Oliviero Beha su l’Unità del 6 Dicembre) cui è affidato il compito di gettare creolina nelle scuole in cui non vogliono andare e da cui si sentono oppressi. C’è un rapporto di qualche tipo fra tutti questi fatti? Stiamo facendo davvero qualcosa per evitare tutto questo? È questo, davvero, il Paese in cui viviamo?
Lettera firmata
Jole Santelli, deputato di Forza Italia e sottosegretario alla Giustizia nel governo di Berlusconi, calabrese, mi parlava con uno sgomento autentico qualche sera fa, nelle pause di una trasmissione televisiva, di quello che sta succedendo nella sua terra. Le leggi che abbiamo contro la delinquenza organizzata, diceva, sono leggi tarate sulle organizzazioni mafiose siciliane in cui il contrasto di interessi si sviluppa anche all’interno del singolo gruppo ed in cui il fenomeno del “pentitismo” è continuamente possibile. È su questo punto debole dell’organizzazione mafiosa, diceva la Santelli, che Giovanni Falcone ha aperto una breccia importante. Storia e funzionamento attuale della ‘ndrangheta, tuttavia, rendono difficilmente utilizzabile questa strada perché le ‘ndrine su cui questa organizzazione si regge hanno una origine e una tenuta di tipo famigliare. Con vincoli stretti che confondono l’economico (più o meno delinquenziale) con il privato. Che rendono possibile la collaborazione con il giudice solo da parte di chi a quella banda particolare non appartiene. Che rendono impossibile, cioè, la testimonianza che parla dall’interno o dell’interno delle singole organizzazioni.
La vicenda dei ragazzi calabresi che pagano dei bambini per distruggere o per sfregiare con la creolina la scuola in cui non hanno voglia di andare può essere utilmente inquadrata, a mio avviso, in questo tipo di cornice. Nel gioco a tre fra me che ho in mano le redini del comportamento illegale (dal commercio di droga al vandalismo), loro (gli emigrati o i ragazzi di strada) che io pago (poco, ma a loro va bene) e rischiano per mio conto e i rappresentanti di una legge e di uno Stato terribilmente lontano ed in cui io non mi riconosco c’è il piacere della sfida contro l’autorità “forte” e quello di chi misura la sua forza schiacciando chi è più debole di lui.
Al di là delle considerazioni ovvie sulla patologicità di tutti questi comportamenti, tuttavia, quello su cui occorre riflettere è la filosofia cui esse si ispirano: una filosofia che è quella, sostanzialmente, del non riconoscimento delle regole su cui si basa la convivenza civile all’interno di uno Stato moderno di cui si disconoscono insieme la legittimità e l’utilità. Che si percepisce come un nemico, insomma, da cui ci si difende chiudendosi (rinserrandosi) all’interno della propria famiglia (Famiglia o ‘ndrina).
Non ho elementi certi per dire che la Famiglia con la F maiuscola di cui sto parlando sia il riferimento valoriale dei ragazzi della creolina. Quello che mi pare di poter ipotizzare (congetturare), tuttavia, è che il riferimento valoriale di questi ragazzi, quello che così risolutamente e sprezzantemente li oppone alle regole del vivere sociale abbia qualcosa a che vedere, nella Calabria di oggi, con il loro sentirsi parte di clan (di ‘ndrine) che di queste regole sanno e possono tranquillamente fare a meno, costruite e centrate come sono intorno al rispetto di una gerarchia diversa da quella di chi a questi clan (‘ndrine) non ha la “fortuna” di appartenere. «Funziono e mi sento riuscito in rapporto a come mi vedono all’interno della mia “famiglia”, sembrano dire gli adulti e i giovani coinvolti in questo particolare tipo di delinquenza, molto più che in rapporto a come mi vedono e mi valutano fuori dalla mia famiglia»: muovendosi, tutti, all’interno di una logica che ha poco o nulla a che fare con quella su cui si organizza la vita di tanti adulti e ragazzi italiani ed europei abituati a cercare nella famiglia il luogo del ricordo e del sostegno (affettivo e/o economico), non la fonte principale dei loro riconoscimenti valoriali e di status.
Il valore simbolico della vicenda “creolina” dovrebbe essere valutato con grande attenzione, a mio avviso, proprio se si tiene conto di questo elemento. Dal tempo dell’illuminismo e fino ad oggi, la scuola è, in realtà, la rappresentazione più significativa del modo in cui la società moderna tende a costruire l’idea per cui l’identità valoriale di un individuo si fonda nel suo rapporto con gli altri oltre che con i suoi famigliari. Riscattarsi ed emanciparsi dalle pretese affettivamente comprensibili ma socialmente (razionalmente) inaccettabili di un “padre padrone” è stato visto e presentato simbolicamente, negli ultimi due secoli, come lo sbocco positivo per il contrasto che dovrebbe eventualmente verificarsi fra la visione del mondo delle famiglie e quella del sociale condiviso. Il che non accade dove, come nelle ‘ndrine o nei clan, il valore familiare è sentito ancora come un assoluto.
Opporsi alla scuola, abbandonandola e sfregiandola, potrebbe essere, da questo punto di vista, un modo di agire, al livello di un gruppo adolescenziale, un conflitto di fondo fra un sistema di valori centrato sulla tradizione e sulla famiglia («io-noi e non gli altri sappiamo quello che è giusto») e un sistema di valori sentito come esterno o “altro”. Riproponendo in tutta la drammaticità delle sue conseguenze, la difficoltà di integrare concretamente, in un quotidiano lacerato dagli scontri e dalle incomprensioni, gli esponenti di culture che vivono divise da un vero e proprio conflitto di interessi. Il che accade anche in altri luoghi, ovviamente, se è vero che tante famiglie si schierano con i loro figli e contro la scuola quando questa pensa di poterli punire. Il che accade in modo più grave e più drammatico, tuttavia, in una Regione in cui troppa è la gente, ancora oggi, che non si riconosce in uno Stato di cui comunque fa parte.