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Unità: La corazza dei «non so»

A lcuni ragazzi trasmettono inquietudine, a causa della loro inerzia. La loro insofferenza che non parla, che non si dichiara, è inafferrabile. Ogni monito o avvertimento che giunge dall'esterno, ogni discorso pacato o allarmato che cerca di scuoterli, si infrange contro l'invisibile cortina che li difende e isola

04/04/2006
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l'Unità

Luigi Galella

A lcuni ragazzi trasmettono inquietudine, a causa della loro inerzia. La loro insofferenza che non parla, che non si dichiara, è inafferrabile. Ogni monito o avvertimento che giunge dall'esterno, ogni discorso pacato o allarmato che cerca di scuoterli, si infrange contro l'invisibile cortina che li difende e isola. L'apatia che li abita sembra essere più potente di qualsiasi motivazione positiva. Li possiede in negativo, trasformando l'angoscia in un debole sorriso. Le parole sono colpi da schivare. Proiettili cui opporre corazze di silenzio e apparente indifferenza. La galleria dell'inerzia si popola ogni giorno di nuovi arrivi. Contagia intere classi, destabilizzando i professori, che si chiedono perché. Perché i ragazzi non vogliono studiare. Perché sono così distratti. Perché quest'anno, proprio quest'anno.

Cammino verso scuola a fianco di una collega di Informatica di un altro corso, di solito gioviale e sorridente. Ci conosciamo da anni, ma non abbiamo molte occasioni di parlare, giusto qualche battuta tra un cambio e l'altro dell'ora, quando ci incrociamo. Mi chiede come va, e poi mi incalza: i ragazzi, i miei ragazzi. Non faccio in tempo a rispondere che mi parla dei suoi. In maniera sconsolata, drammatica: ha solo due sufficienze. Quindi mi domanda che cosa si può, che cosa bisognerebbe fare, spaesata dentro l'analisi dei fatti: abbassare il livello delle nostre ambizioni o limitarsi a ratificare la realtà nella sua evidenza fallimentare. Che cosa.

Alla quinta ora scopro di avere una sostituzione in una prima classe, dove non sono mai entrato. I ragazzi sono tutti fuori, tra il corridoio e i bagni. Fatti rientrare in aula mi presento e inizio a conoscerli. La prima domanda è: come va. Risposta: malissimo. Metà classe rischia la bocciatura, dieci sono certi di non farcela. Mi soffermo a parlare con un ragazzo marocchino, alto, magrissimo, con l'atteggiamento spavaldo e un po' gaglioffo di chi prova a gettare tutto in scherzo. Mi spiega che è da cinque anni in Italia, ha raggiunto suo padre, che vive qui da trent'anni, con la famiglia divisa tra Italia e Marocco. Tre fratelli sono rimasti giù. Parla con l'accento che inizia a piegarsi alla cadenza romanesca. Perché non va? È semplice, non ha voglia di studiare. Gli chiedo se ha riflettuto su quest'assenza di motivazioni. Lui risponde quasi stupito della domanda, quasi seccato, non gli va perché non gli va. A che cosa servono le analisi? Le cose sono così. Travolti dal mare dell'oggettività, navighiamo osservandoci intorno, fotografando l'esistente con l'animo di chi ha rinunciato a chiedersene le ragioni. Possiamo solo renderci conto di ciò che è, quando ci riesce. Guardare e annuire alle cose, che pensano al nostro posto, come direbbe il poeta Pasquale Panella.

Proprio la realtà, che abbiamo determinato a creare, è quella che determina la nostra impossibilità di modificarla. Che ci paralizza. Come se fossimo entrati tutti nella giara pirandelliana, panciuta e dal collo stretto, allo stesso modo di Zi' Dima, e ci fosse impossibile uscirne. All'inerzia dei ragazzi opponiamo un sorriso di circostanza, preoccupato e a sua volta inerte. Che fare. Ce lo chiediamo, ma è una domanda retorica. Sappiamo che alla fine dell'anno attueremo la logica dell'accomodamento, perché non si può precipitare un intero istituto all'inferno. Così, ci accontenteremo di qualche prova decente che giustifichi il salvataggio di alcuni. Gli altri cadranno, un numero «fisiologico», che ci consenta di non sfigurare troppo nelle graduatorie europee. Quando parliamo di scuola, rischiamo di scivolare nella retorica e nell'ipocrisia. Certo, non è quella cui pensavamo. Che abbiamo immaginato e sognato e nella quale ancora crediamo. Dobbiamo affidarci all'ottimismo della volontà per rappresentarla. O all'entusiasmo dei singoli, professori e alunni, che si muovono in controtendenza. Come se non avessero coscienza del «vento che tira». E pensassero di poter condurre la barca, che li porta altrove.

luigalel@tin.it


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