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Unità: La cellula della discordia

Testo dell’intervento pronunciato mercoledì in Senato in occasione del dibattito sulle cellule staminali da Sergio Zavoli

22/07/2006
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l'Unità

Sergio ZavoliScusatemi se la prenderò da lontano. Giorni fa, per la prima volta, ho ascoltato una nuova espressione che, nella testa di qualcuno, dovrebbe sostituire quella convenuta per definire chi non crede, il «non credente». Ebbene, la nuova locuzione è «diversamente credente», così come si dice «diversamente abile». Confesso che, seppure nella sua risoluta esplicitezza, “non credente” mi sembrava il modo più chiaro, netto e leale d’essere il contrario di credente.

Ma ora, alla luce di tante cose, forse si vorrebbe mitigare quell’affermazione con una variante meno conclamata e, soprattutto, meno impegnativa. Credo che non avrà un gran seguito - si presta a troppe obiezioni - ma è destinata a restare un sia pur mediocre escamotage linguistico, apparso in un tempo che vede messa alla prova, in misura per tanti versi inedita, una contrapposizione che divide, anche in forme integraliste, l’anima di mezzo mondo. La ragione, invece, del presente dibattito (giovedì al Senato, ndr) s’inscrive, sì, in un confronto tra cultura laica e cattolica, forse il maggiore tra quanti ne abbiamo vissuto, ma, è augurabile, in uno spirito nuovo. E non soltanto dalla parte degli appiccatori d’incendi, comparsi dopo l’11 settembre del 2001, interessati esclusivamente a provare la supremazia di questo o quel credo, ma anche degli uomini di ragione, avvezzi a praticare la scienza e la filosofia, la tecnologia e la morale, divisi tra chi crede e non crede che mai, prima d'ora, una scelta scientifica era stata, al tempo stesso, anche umanistica. Del resto, bollono negli alambicchi straordinarie arditezze, chissà se tutte conciliabili con l'etica e la ragione. È sempre più diffuso, infatti, il timore che attraverso la scienza, e superando ogni altra dimensione dell’esistenza, l’uomo voglia prendere, per così dire, il posto di Dio, e a un estremismo si risponda con altrettanta perentorietà replicando che l’immane pretesa sarebbe immaginabile soltanto se quell’uomo fosse in grado di assumersi le responsabilità morali di Dio.

La querelle, nella sua paradossalità, non è estranea alla grande, responsabile e meritevole immedesimazione che credenti, agnostici, e non credenti dedicano al problema postoci dall’uso delle staminali in ordine al destino degli embrioni. A parte l’indicazione, non strumentale né opportunistica, di usare, al fine della sperimentazione, «gli embrioni crioconservati non più impiantabili» - che mi pare sia assai più di un ragionevole compromesso - agli oppositori più fermi mi premerebbe proporre, dal più modesto dei pulpiti, il dubbio che si stia discutendo di qualcosa che riguarda noi e loro insieme, per il solo motivo che stiamo mettendo in causa, con la stessa dignità intellettuale e morale, i differenti modi di concepire, razionalmente ed eticamente, i valori impliciti nella controversia. Siamo vissuti, perlopiù, in una cultura che ha affrontato la dimensione valoriale non in termini prevalentemente illuministi, né scientisti, né confessionali. Con i laici, da una parte, inclini all’idea razionale, e relativista, che tutto può essere o diventare diverso, senza fedi e valori assoluti ad eccezione di quelli - per usare una limpida espressione di Gustavo Zagrebelsky (ma vorrei citare anche una lontana lezione, in materia di bioetica, di Giuliano Amato) sui quali si basa la democrazia, cioè il rispetto dell'uguale dignità di tutti gli esseri umani e dei diritti che ne conseguono; e i cattolici, dall’altra parte, che invece non possono non assegnare ai principi un inderogabile, ontologico carattere di perennità. Orbene, vorrei fossimo tutti persuasi che, al di là di ogni semplificazione, ci intenderemmo meglio, maggioranza e minoranza, credenti, agnostici e non credenti, se alla cultura degli ideali cominciassimo ad accompagnare - simmetricamente, non in opposizione - la cultura dell’etica; la quale, sia detto per inciso, non ha né potrebbe mai usare strumenti ideologici per creare le catastrofi in cui abbiamo visto, e tuttora vediamo, precipitare tanta parte del mondo. Se è vero, come è vero, che la ricerca scientifica pone sempre più il problema del consenso interiore a ciò che l’intelligenza è in grado di sprigionare, per ciò stesso dovremmo collocare il nostro dibattito in un terreno aperto alla sensibilità di ognuno e quindi di tutti; persuasi di dover ricercare ogni possibilità per migliorare il nostro destino, guidati dall’idea che l’uomo non è qui per rifare l’uomo - un progetto a cui credo non pensi neppure Dio - ma perché l’uomo non sia o non diventi meno di un uomo.

Non potendo rinunciare, per via di ragionamento, a ciò che di straordinario continuerà, sempre più, a riservarci la ricerca, e assumendo a incoraggiamento persino le parole del salmista, il quale laicamente ci invita a «far nuove» - anche noi - «tutte le cose», non cederei mai alla tentazione di superare uno scontro di questa natura nascondendomi, e tantomeno cancellando, la sua origine. Credo invece che, mentre le divisioni di principio ci attardano nel passato, sarà l’ostinato ottimismo di chi sa che un uomo è un uomo per il suo avvenire a sospingere le nostre idee, le nostre speranze, ma soprattutto le nostre scelte. Non parlo in nome della mia fides infirma, ma di un sogno razionale: che la giustezza delle idee, delle speranze umane - di cui, con franca equità, ha parlato il ministro Mussi - e soprattutto delle nostre scelte, sappia sempre più obbedire alla cultura dell’eticità, prima luce di una condivisa intelligenza morale e civile.

Il mio, palesemente, non è stato un argomentare tecnico; nel quale non mi sono spinto, essendo privo degli attrezzi necessari. Lasciatemi perciò concludere con questa riflessione di un filosofo del nostro tempo, Ernst Bloch: «La ragione non può fiorire senza la speranza, la speranza non può parlare senza la ragione». Non negandoci dunque al valore senza prezzo del cercare per sapere, e del sapere per capire. Qui dentro sta la ratio, il monito e la legge.

Testo dell’intervento pronunciato mercoledì in Senato in occasione del dibattito sulle cellule staminali


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