Unità: L’urlo dell’operaio, la voce di Bruno
Chiara Ingrao
L’urlo dell’operaio, la voce di Bruno
Chiara Ingrao
Bruno Trentin io l'ho conosciuto da ragazzina, quando veniva a parlare di politica con mio padre, all’ora del pranzo. Mangiavo, sparecchiavo la tavola a turno con le mie sorelle, e ascoltavamo i discorsi dei grandi. E quando a tavola c'era Bruno lo sparecchiare si faceva più lento, perché avevi voglia di fermarti ad ascoltare. In quell'ascolto, fra la pasta e la fettina, fra l'insalata e il caffè, è iniziata la mia formazione di persona adulta.
Poi mi sono fatta adulta anch’io, e ho avuto in dono l'amicizia di Antonella, la figlia di Bruno, e poi direttamente di Bruno - non più padre ma fratello maggiore, con la sua splendida compagna Marie, nelle camminate in montagna e nelle serate di chiacchiere. E nel sindacato metalmeccanici, dove lavoravo allora e dove ho imparato quasi tutto, di ciò che è importante nella vita e di ciò che so e ciò che ho vissuto in quella forma speciale del rapporto con gli altri che si chiama politica. Una politica generosa, cosa oggi così rara. Una politica del fare, del riflettere, dell'ascolto attento dell’umana esperienza, in ogni luogo: e prima di tutto nella fabbrica, nel ricostruire il sapere del lavoro, restituirgli dignità, riconoscerne la forza di trasformare il mondo.
C'è quello slogan che ripetevamo sempre: «resisteremo un minuto di più del padrone». Oggi sembra obsoleto, la parola «padrone» non si usa più. Ma non è questione di definizioni. È una scelta di libertà, resistere a chi ti vuol essere padrone. Quella scelta, Bruno ci ha insegnato che si può viverla e gridarla in piazza; ma che non basta. Che poi va sempre cercato lo sbocco, il risultato concreto, la conquista da «portare a casa» - per non fermarsi allo sfogo di rabbia, ma costruire le tappe di un percorso di liberazione. Ci ha insegnato che dunque bisogna imparare l'arte della trattativa: che non è quella misera cosa di mercato delle vacche oggi così frequente, ma è l'arte di «fissare i paletti», si diceva allora, saper distinguere fra ciò che essenziale e irrinunciabile e ciò che si può cedere o rinviare al domani, per consolidare il risultato dell'oggi.
E questa distinzione costruirla non a tavolino, dentro la testa di un leader, o in un sondaggio d'opinione - ma nell’ascolto e nel confronto con le lavoratrici e i lavoratori, sapendo che i soggetti centrali sono loro, ed è loro il diritto ad avere l'ultima parola.
Nel corso di quell'esperienza io ho incontrato Paolo, il mio compagno di vita, allora sindacalista della Fiom nella mitica «Quinta lega» della Fiat Mirafiori. Paolo racconta sempre di quanto gli diceva un delegato della Fiat, sull'urlo che scoppiava a volte sulle catene di montaggio. Un urlo improvviso, come di bestia ferita: un urlo che faceva accapponare la pelle.
L'urlo di chi non ce la faceva più, a reggere quella condizione e quel ritmo, ma non aveva parole per dirlo. Bruno ci ha insegnato ad ascoltare la voce umana dentro quell'urlo disumano: a decifrarne il senso, a camminare insieme a chi grida, cercando insieme di ritrovare la parole e la voce, perché nessuno debba più urlare in quel modo, perché nessuno debba mai sentirsi bestia senza parole.
Ferisce, ricordarlo oggi: perché a Bruno, nel suo ultimo anno di vita, sono mancate proprio le parole, la voce. Bruno, che ha dato a tutti noi tanta forza da camparci sopra tutta la vita, ha conosciuto la ferita della debolezza, della fragilità, dell'impossibilità di muoversi. Bruno che ci insegnato la libertà, è stato prigioniero dentro al proprio corpo. È duro parlarne, si vorrebbe ricordarlo come lo abbiamo avuto accanto tutta la vita, come lo vediamo nel bellissimo manifesto della Cgil. Eppure è importante, non cancellare quell'ultimo anno - perché questo Bruno ci ha insegnato: a non voltare mai la faccia dall'altra parte, e meno che mai di fronte alla sofferenza. Anche in questo anno di sofferenza, Bruno ci ha insegnato tantissimo. Vorrei trovare le parole giuste per spiegarlo, e certo molto meglio di me potrebbe farlo chi gli è stato accanto tutti i giorni, con l'amore di tutta una vita: Marie, Antonella, Giorgio. Bruno se n'è andato. Dopo tanto dolore, viene da pensare che non ce l'ha fatta, a resistere un minuto di più. E invece dobbiamo saperlo, e riuscire a dirlo, che non è così: che la dignità, la capacità di lottare, l'amore grande per la vita che ci ha comunicato anche quando aveva già di fronte a sé la morte, resisterà dentro di noi molto di più di un minuto, molto di più della morte padrona. Resisterà la voce azzurra dei suoi occhi, la stretta intensa delle mani, la voglia di feroce di libertà nel lavoro ostinato in palestra, ma anche negli scatti di rabbia, che di botto gli restituivano la voce. Resisterà la sua capacità di afferrare la vita per il bavero, negli attimi brevi di gioia catturati tra le foglie di un albero, o negli occhi grandi della sua nuova nipotina, Giulia. Resisterà la luce del suo sorriso, che in quei momenti ci illuminava la giornata.
Abbiamo inseguito quei sorrisi - goffamente, come potevamo. Sapendo che a volte non si poteva, e si doveva imparare ad accettare l'impotenza, offrendo solo la semplice umana fatica della condivisione. È con questa coscienza che un giorno, andando a trovarlo, ho portato con me un libro: Se questo è un uomo. Ho cercato una pagina - quella in cui Primo Levi racconta di come cercava di condividere, con un compagno di prigionia insieme a cui trasportava la zuppa del rancio, le parole del Canto di Ulisse. Bruno le parole non poteva più condividerle: ma a me sembrava di riconoscere, nella lotta muta della sua anima, la stessa grandezza di Primo Levi, anche lui umiliato nel corpo, eppure sempre vivo nella sua dignità, nella libertà interiore che sconfigge ogni prigione. Ho provato a dirglielo quel giorno. E con quelle parole vorrei ricordarlo oggi, e dirgli il mio grazie per tutto ciò che ci ha dato, per ciò che è stato per tutti noi: «...Quante altre cose ci sarebbero da dire, e il sole è già alto, mezzogiorno è vicino. Ho fretta, una fretta furibonda. Ecco, attento Pikolo, apri gli orecchi e la mente, ho bisogno che tu capisca:
Considerate la vostra semenza:
Fatti non foste a viver come bruti,
Ma per seguir virtute e conoscenza.
Come se anch'io lo sentissi per la prima volta: come uno squillo di tromba, come la voce di Dio. Per un momento, ho dimenticato chi sono e dove sono.
Pikolo mi prega di ripetere. Come è buono Pikolo, si è accorto che mi sta facendo del bene. O forse è qualcosa di più: forse, nonostante la traduzione scialba e il commento pedestre e frettoloso, ha ricevuto il messaggio, ha sentito che lo riguarda, che riguarda tutti gli uomini in travaglio, e noi in specie; e che riguarda noi due, che osiamo ragionare di queste cose con le stanghe della zuppa sulle spalle.
Li miei compagni fec'io si acuti...
(...)Che Pikolo mi scusi, ho dimenticato almeno quattro terzine.
- Ca ne fait rien, vas-y tout de meme - ...Quando mi apparve una montagna, bruna / Per la distanza, e parvemi alta tanto / Che mai veduta non ne avevo alcuna.
Sì, sì, "alta tanto", non "molto alta", proposizione consecutiva. E le montagne, quando si vedono di lontano... le montagne... oh Pikolo, Pikolo, di' qualcosa, parla, non lasciarmi pensare alle mie montagne, che comparivano nel bruno della sera quando tornavo in treno da Milano a Torino!
Basta, bisogna proseguire, queste sono cose che si pensano ma non si dicono. Pikolo attende e mi guarda. (...)È tardi, è tardi, siamo arrivati alla cucina, bisogna concludere: Tre volte il fe' girar con tutte l'acque,
Alla quarta levar la poppa in suso
E la prora ire in giù, come altrui piacque...
Trattengo Pikolo, è assolutamente necessario e urgente che ascolti, che comprenda questo "come altrui piacque", prima che sia troppo tardi, domani lui o io possiamo essere morti, o non vederci mai più, devo dirgli, spiegargli del Medioevo, del così umano e necessario e pure inaspettato anacronismo, e altro ancora, qualcosa di gigantesco che io stesso ho visto ora soltanto, nell'intuizione di un attimo, forse il perché del nostro destino, del nostro essere oggi qui... Siamo oramai nella fila per la zuppa, in mezzo alla folla sordida e sbrindellata dei porta-zuppa degli altri Kommandos. I nuovi giunti ci si accalcano alle spalle. - Kraut und Ruben? - Kraut und Ruben. - Si annunzia ufficialmente che oggi la zuppa è di cavoli e rape: - Choux et navets -.- Kaposzta és répak.
Infin che 'l mar fu sopra noi rinchiuso».