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Unità: L’università italiana è cambiata Ora è in mezzo al guado

di Pietro Greco

04/02/2008
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l'Unità

IL RAPPORTO

L’università italiana è cambiata. Negli ultimi 25 anni è diventata più giovane, nei suoi studenti e nei suoi laureati. E insieme più vecchia, nel suo corpo docente. Offre di più in quantità e, forse, meno in qualità. Il flusso internazionale è bidirezionale a livello di studenti, ma diventa drammaticamente monodirezionale a livello di dottorati. Resta problematico il rapporto con le imprese. L’università italiana ha ormai lasciato la vecchia sponda ottocentesca di luogo di formazione delle classi dirigenti, ma non è ancora diventata il motore della società (e dell’economia) della conoscenza: è in mezzo al guado.
È questo, in sintesi, il quadro che emerge dall’«Ottavo rapporto sullo Stato del Sistema Universitario» reso pubblico dal Comitato nazionale per la valutazione del sistema universitario. Il rapporto riguarda i grandi numeri dell’alta formazione in Italia e il loro andamento storico. E sono i numeri a dirci che l’università italiana nell’ultimo quarto di secolo accoglie più studenti: nel 1980 gli iscritti erano 1.060.000, nel 2005 gli iscritti erano 1.824.000. In 25 anni il numero di studenti è aumentato del 72%, nonostante che la popolazione giovanile complessiva del paese sia diminuita di un terzo. Nel 1980 solo il 38% dei ragazzi che conseguiva il diploma di scuola media superiore si iscriveva all’università, nel 2005 la percentuale è salita al 77,2%.
Grazie anche alla riforma cosiddetta «3+2» e all’introduzione della laurea breve il numero di giovani che si laureano in un anno si è quadruplicato. A conseguire il diploma universitario nel 1980 erano meno di 74.000 giovani, nel 2005 sono stati oltre 301.000. Il che consente di avvicinarci alla media europea. Anche l’offerta didattica è aumentata. Nel 2000, ultimo anno prima della riforma, erano attivi 2.444 diversi corsi di laurea, nel 2005 erano diventati ben 5.591: un incremento quantitativo che, dicono - non senza ragione - i critici, è troppo spesso avvenuto a spese della qualità. A questo fenomeno ha contribuito anche l’aumento degli stessi atenei, giustificato più da interessi localistici che da esigenze culturali.
Molto si è discusso, in questi anni, sulla qualità della transizione. Ma un dato è certo: dal punto di vista della popolazione studentesca, il mondo dell’università italiana è diventato molto più grande e molto più variegato. Anche il corpo docente è aumentato: negli ultimi dieci anni si è avuto un incremento del 24,1%. Ad aumentare di più sono stati i professori ordinari (+ 51,6%), di meno i ricercatori (23,4%), mentre risultano sostanzialmente stabili i professori associati (+4,9%). Il che significa che la piramide del corpo docente si sta trasformando in una clessidra: gli ordinari sono 19.864, hanno superato in numero assoluto gli associati (18.981) e si avvicinano ai ricercatori (23.128).
Il fenomeno si accompagna a due altri fattori: la scarsa crescita dei fondi a disposizione dell’università e il lentissimo ricambio generazionale. E produce tre conseguenze: il progressivo invecchiamento del corpo docente stabilizzato (negli ultimi dieci anni il picco dell’età dei docenti si è spostato da 50 a 60 anni); una quota crescente dei fondi assorbita dagli stipendi e quindi una minor quota a disposizione della didattica, della ricerca e della modernizzazione delle infrastrutture; un aumento del precariato.
Insomma, alle domande di una popolazione studentesca in forte crescita, l’università ha risposto con una frammentazione dell’offerta, un corpo docente più anziano e con strutture sempre più inadeguate. Sono questi i tre problemi strutturali da risolvere se vogliamo che l’alta formazione dia il suo contributo a fare entrare l’Italia nella società della conoscenza.


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