Unità: L’obbligo fantasma della scuola Fioroni
Marina Boscaino
Una domanda a bruciapelo, se fosse possibile avere un riscontro immediato delle risposte, darebbe il senso inquietante della realtà. Quanti - tra i cittadini, le famiglie che mandano i ragazzi a scuola, gli insegnanti - sono consapevoli del fatto che dall'inizio di quest'anno scolastico andrà in vigore la normativa che innalza l'obbligo di istruzione a 10 anni nel nostro Paese? Non ho prove concrete: fidatevi della parola di chi a scuola ci vive, di chi con gli insegnanti ha un contatto quotidiano e - soprattutto - segue con passione e interesse le politiche scolastiche italiane e l'impatto che esse hanno nel mondo della scuola. La risposta è: pochissimi, anche tra gli insegnanti.
Dunque, un po' di storia. L'art. 1, comma 622 della legge del 27 dicembre 2006 n. 296 (la Finanziaria) stabilisce che «l'istruzione impartita per almeno 10 anni è obbligatoria e finalizzata a consentire il conseguimento di un titolo di studio di scuola secondaria superiore o di una qualifica professionale di durata almeno triennale entro il diciottesimo anno di età». Significa un innalzamento dell'obbligo di ulteriori due anni, fino al secondo anno di superiori incluso. Un assunto che - al netto della riforma del '62, che istituzionalizzò la scuola media unica - rappresenta di fatto un balzo in avanti in termini di civiltà, di inclusione, di progresso etico, culturale e civile del Paese talmente evidente e macroscopico che avrebbe meritato ben altra visibilità e una partecipazione orgogliosa e motivata di scuola, società civile, mondo della cultura.
Qualcosa, però, non è andato per il verso giusto. Un po' perché quello della scuola, anche quando propone novità di rilievo assoluto e quasi rivoluzionario come questa, non fa audience, non cattura interesse, non smuove entusiasmi nel nostro distorto sistema dell'informazione, totalmente sedotto dalla logica del profitto immediato. Un po' perché, rispetto alle premesse consegnate al programma dell'Unione (un ricordo ormai sbiadito e quasi inutile da rievocare), passa un «obbligo di istruzione» - non «scolastico» - che di fatto consente, seppure in via provvisoria, l'esistenza di quei percorsi sperimentali di istruzione e formazione professionale partoriti dalla Moratti e osteggiati nei tempi del «resistere, resistere, resistere» dal mondo della scuola e dall'allora opposizione. Percorsi legittimati dal regolamento attuativo della manovra di bilancio che il Ministero dell'Istruzione ha sottoposto all'esame del Consiglio di Stato, che il 23 luglio scorso ha dato parere favorevole.
Durante l'anno-ponte la strategia del ministero è stata prevalentemente rivolta a far passare il provvedimento con l'eccezione di cui si diceva - contro l'opposizione dei partiti della cosiddetta sinistra radicale e della scuola consapevole, che auspicavano un obbligo scolastico da spendere a scuola senza se e senza ma - accreditandola come unico e quindi essenziale deterrente al fenomeno della dispersione; in realtà non potendo scontentare le clientele trasversali che il sistema della formazione professionale configura. Ma che avrebbero potute essere convertite, ad esempio, in educazione per gli adulti. Un po' per la formula ambigua, un po' per l'afasia dell'informazione, l'intera operazione è stata dunque gestita piuttosto in sordina. Al punto che il regolamento promosso dal Consiglio di Stato - che contiene un documento tecnico con due allegati in cui sono indicati i saperi (articolati in conoscenze, abilità e capacità) e le competenze relative ai settori linguistico, matematico, scientifico-tecnologico e storico-sociale e che di fatto consacra definitivamente l'innalzamento a partire da settembre - non è che l'ultimo di una serie di provvedimenti completamente ignorati da scuole e famiglie.
Fatto quantomeno curioso: innalzare l'obbligo significa, sinteticamente, individuare un biennio della scuola superiore comune con aree di indirizzo differenziate; un'operazione tutt'altro che banale, che richiede grande impegno in termini di risorse economiche, umane, culturali. La ciliegina sulla torta in questo sottile e un po' dilettantesco gioco del dico e non dico è rappresentata da una lettera che il ministro Fioroni ha inviato qualche giorno fa ai dirigenti scolastici, per presentare il percorso che si prevede di attuare nei prossimi due anni per sperimentare l'innalzamento dell'obbligo di istruzione. È giustamente insorta la Cgil, che ha lamentato il mancato coinvolgimento dei docenti che, non meno dei presidi, «hanno un ruolo centrale nella messa in atto di questa importante innovazione». A dire il vero - molto più dei presidi - saranno proprio gli insegnanti a concretizzare quanto deliberato in sede di collegio in ogni singola scuola. L'impressione è che una profonda confusione regni presso il ministero; e che si stia approfittando dello stato di ormai endemica apatia che caratterizza la gran parte della classe docente, probabilmente anche demotivata dall'alternanza di provvedimenti presi in un altrove lontano. Tutto ciò ha suggerito di rinunciare a una campagna di orientamento e informazione su una innovazione che - se metabolizzata con convinzione e motivazione - potrebbe avere effetti notevoli. La domanda - banale, ma obbligata - è: come si può pensare di far funzionare una riforma senza coinvolgere in maniera capillare chi quella riforma tra meno di un mese dovrà applicare quotidianamente?
Come insegna Bruner, una riforma mediocre applicata da insegnanti motivati e consapevoli può produrre effetti notevoli; e una riforma anche eccezionale, senza l'apporto e il coinvolgimento degli insegnanti, è destinata a fallire.
A pochi giorni dalla riapertura delle scuole l'impressione amara è che stiamo per perdere un altro importante treno: tra il non vedo, non sento e non parlo di molti di noi, rassegnati esecutori più o meno solerti di direttive che piovono dall'alto. E un ministero criptico e spesso insensibile al puro buon senso che la situazione paradossale in cui ci troviamo richiederebbe; e avrebbe richiesto già da tempo.