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unità-Io precaria vi racconto la mia vita spericolata

Io precaria vi racconto la mia vita spericolata Una trentunenne un po' arrabbiata che vive e opera a Milano racconta la sua esperienza di precaria. Chiedete a un trentenne qualsiasi cosa ne pensa...

25/03/2005
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l'Unità

Io precaria vi racconto la mia vita spericolata

Una trentunenne un po' arrabbiata che vive e opera a Milano racconta la sua esperienza di precaria.
Chiedete a un trentenne qualsiasi cosa ne pensa del lavoro oggi. Prendetelo proprio qualsiasi, quindi mediamente scolarizzato, informatizzato, che conosce l'inglese e preferibilmente una seconda lingua. Credo che si riconoscerà, anche solo in parte, in quello che scrivo.
Fra gli anni 80 e 90 il cambiamento era nell'aria: cominciava il tramonto del lavoro fisso, della tutela, della contrattazione; i massimi sistemi della società stavano rintuzzando le armi e abbandonando la via della concertazione. Ma, di queste svolte decisive, nelle scuole nessuno sapeva niente. In quegli anni, fra una spremitura di brufolo e l'ultima cotta, continuavamo a studiare quello che pensavano i latini dell'ozio o la depressione cosmica di Leopardi; nel migliore dei casi, da qualche raro insegnante fautore del moderno, apprendevamo che Madame Bovary era una poco di buono e che secondo Freud volevi scoparti tua madre.
Risultato: sapevamo benissimo cosa si pensava del mondo nell'800, ma non sapevamo niente di quello che il mondo stava pensando in quel momento. Poi, dopo notti estive insonni alla Venditti, facevamo l'esame di maturità, una sfilata di vestiti trendy davanti a una schiera di professori accaldati mai visti prima. "Cosa vuoi fare dopo?" ti chiedeva un professore mentre tu ti rialzavi il top mignon, due bretelline in filigrana sulle spalle abbronzate. Per non dire un "boh" di quelli con cinque "o", dicevi: "Non so". Perché la maggior parte di noi non aveva neanche una vaga idea del proprio futuro: decidevamo cosa fare a intuito, setacciati dei nostri talenti dai nostri sottopagati insegnanti. I miei insegnanti, in buona fede, mi dissero di seguire le mie passioni. Di lavoro a scuola non mi parlò nessuno; fu così che, nei primi anni 90, mi iscrissi a lettere mossa da un intento incredibilmente lontano dal buon senso: rimediare alle mie ignoranze culturali.
Cambiai città: all'epoca l'università era la causa principale della mobilità giovanile; poi è cominciata l'era del decentramento, che ha fatto fiorire sedi universitarie distaccate ovunque, ed è sopraggiunto il caroaffitti, che ha inchiodato i giovani a casa. Da buona provinciale, io inseguii il mito della metropoli e, pur sognando la grande mela, dovetti accontentarmi della caput mundi. Approdai allo studentato. Lo studentato di Roma era un vero spaccato di vita bohemienne, dove trovavi di tutto e dove tutti, in senso lato, si ritenevano un po' artisti. In questo contesto, studiavi i libri, ma soprattutto sperimentavi la vita: incontravi le diversità, scoprivi il cyber, imparavi a suonare la chitarra, ti facevi un cicchetto con gli stranieri dell'ostello, e il mondo ti sembrava un po' più vicino, un po' più casa.
E di lavoro si parlava quasi quanto di musica, con concentrati di rabbia giovanile contro i crumiri del sindacato, lo sfruttamento dei padroni, e argomenti-companatico come il caro trasporti, l'equo canone, lo stato sociale. Per quella gioventù la destra praticamente non esisteva. Tutto, per noi, era di sinistra, la cultura, gli ideali, la visione del mondo. Politicamente la destra era confinata al fascismo, il cui unico aggancio col quotidiano erano i rasati di forze varie; oppure si definivano genericamente di destra l'inciucionismo di stato, i pentapartitismi e i collusionismi. La borghesia era sicuramente di destra; a volte, per estensione pànica, addirittura la natura, con la storia della selettività, era di destra. Intanto nella tua vita il lavoro, come presenza o valore, latita, finché arrivi all'età dei primi bilanci. Ognuno ha la sua, ma la dinamica è la stessa: pensi che non ne puoi più di dividere la stanza con gli sfollati, di trovare sempre la moka sporca, di gente che ti scrocca le sigarette, e pensaci oggi, pensaci domani, alla fine non pensi ad altro. Tutto comincia così, con un lavoro saltuario per pagarti il cinema d'essai, poi d'improvviso ti trovi coinvolto nella mitologia del fai da te: tu lavori, tu guadagni, tu paghi. Qualcuno ti suggerisce che sei solo cresciuto.
Quando il lavoro diventa mito, allora tutto deve diventare resa. Questo rende, questo no, impiego il mio tempo, perdo il mio tempo, produco risultati, causo sprechi. L'effetto positivo è che finalmente capisci che studiare è una perdita di tempo. Ti mancano gli ultimi esami e hai la sensazione che quello che devi portare a termine non serve a niente. La svolta epocale intanto si è consolidata; la retorica del nuovo lavoro ha adottato argomenti chiave: mobilità, flessibilità, competenze (non competenza). Tu pensi: sono fra gli eletti, ce la faccio. Cominci a muoverti nel bazar delle offerte di lavoro. Devi essere laureata preferibilmente in materie scientifiche o economiche, devi parlare due lingue, devi saper usare il computer, devi aver maturato esperienze documentabili in contesti dinamici, tutto questo entro i 25 anni di età. Sospendi il giudizio, come Husserl; salti le contraddizioni e ti concentri sulle direttive: "Le aziende non prendono in considerazione i neolaureati". "Le aziende non considerano i laureati in materie umanistiche". "Le aziende prediligono i candidati con esperienza". "Le aziende chiedono flessibilità". Da paese artigiano e contadino, disseminato di prodotti tipici e fautore del dop, l'Italia s'è inventata paese aziendale. L'Azienda è il nuovo amen. L'Azienda vuole, l'Azienda dice, l'Azienda insegna. Nel mondo del trionfo capitalista, il marxismo, almeno a livello filosofico, si prende la rivincita: tutto è subordinato all'economia, e la vita umana è divisa in strutturale e sovrastrutturale, dove la struttura è l'Azienda, la sovrastruttura l'uomo.
Ti adatti: al colloquio selettivo impari a dire che tutto ciò che hai sognato da quando hai mosso i tuoi primi passi su questa terra era lavorare per la Coccobello Company di Coccobello Amilcare ' brothers. La prima parola che hai sillabato all'alba della tua esistenza terrena non è stata mamma, o il meno elaborato ué, ma Coccobello Company di Coccobello Amilcare ' brothers. Se ti chiedono perché vuoi lavorare, non devi fornire motivazioni sensate, ma elencare le grazie mistiche che ti aspetti dal tuo inserimento in Azienda. Perché tu non devi fare il tuo lavoro, no, devi sposare la mission aziendale, essere orientato alla crescita, avere capacità di problem solving, saper lavorare in team. E per favore non dire queste cose in italiano. Vuoi dire chic?, dillo in francese; vuoi dirlo aggiornato?, dillo in inglese.
Ma torniamo a te. Più che le qualità umane (sei dinamico, positivo, motivato), dopo gli studi ti preoccupano le famose competenze. Eppure, la risposta c'è già, si chiama formazione, ed è alla portata di tutti: corsi per brainworker, ginnasti, veline... Ma per il laureato medio - anni di studio alle spalle per sentirsi dire che non sa niente - la strada è quasi obbligatoria: il master. Nel frattempo, oltre ai soldi per il master, i tuoi genitori, o tu servendo hot dog perché tanto è un solo passaggio, devono trovare quelli per il computer, per internet, per il viaggio all'estero. E comunque, in qualche modo ce la fai. Baratti il tuo tempo con il "fare esperienza", e regali manodopera, che "montedopera" non si può dire, con una menzione di merito al Suditalia, dove la pratica del volontariato professionale è ampiamente consolidata, e produce indotti aùm-aùm e villette abusive al mare, in un teatrino di mamme, zii e nonni che intercedono di cestini a Natale, di lavoro nero, grigio e a seguire fino a tutti gli arcobaleni lavorativi che il Sud riesce a inventarsi. Nel frattempo tu "ti dai da fare".
Poi, la roulette del lavoro comincia a dare i numeri giusti; prima o poi, per culo o per conoscenza, cominci a lavorare e improvvisamente ti ritrovi dalla parte di quelli che affollano i mezzi pubblici, che presentano la dichiarazione dei redditi, che cercano un monolocale a buon prezzo. Adesso hai anche un contratto e pensi che forse puoi stare tranquilla, che sta per cominciare un percorso nuovo. Ma nell'era della mobilità non puoi fissare una convinzione. Parti per un'altra città, e dal saltuario agli 800 euro al mese ti sembra di averne fatta di strada. Poi paghi affitti e conti esosi, e ti ricordi di quell'espressione letta sui giornali tanto tempo fa, com'è che si chiamava?, ah sì, povertà di ritorno. E piano piano lo sconforto si rigenera, cambia forme: da disoccupato ti ritrovi precario, e dopo un po' anche se lavori troppo ti va male perché rischi la categoria di iperspecializzato, e se all'inizio sopporti perché pensi che è la gavetta, poi ti accorgi che gli anni passano e fra un po' avrai trent'anni e magari ti salterà in mente di cominciare a fare progetti, tipo una famigliola felice, o, più umilmente, un acquisto a rate. Non sai dire esattamente cos'è giusto; pensi moderno, ti dici che il mondo cambia e che tu devi saperti adattare, poi però ti chiamano come il verso della gallina, Co.co.co., e anche se poi diventi a progetto tu continui a chiederti se in effetti non sei un po' pollo, visto che per contratto sei un professionista ma di fatto stai in ufficio tutto il giorno, chiedi il permesso anche per andare a fare la pipì e più che uno stipendio percepisci un contributo a campare.
Prosegui col gran parlare sulla società che invecchia, sul tasso di natalità fermo, sul tracollo del sistema pensionistico. E tu ti sintonizzi, pensi che devi accettare il sistema contributivo, fare figli, pagarti una pensione integrativa, tutto col tuo sottosalario da precario. Poi ti chiedi: ma in una società di precari, chi sosterrà i consumi, chi alzerà il tasso di natalità, chi investirà in fondi, chi comprerà la Fiat con gli incentivi statali? E se i mutui sono roba per assunti, e i prezzi delle case impazzano, chi sosterrà il mercato immobiliare? E perché oggi si "investe sul mattone" e non si "compra casa"? Si parla di emergenza abitativa, e infatti i giovani continuano a condividere appartamenti - tardivi esperimenti di collettivo - oppure si adattano, giganti cresciuti, alla lillipuziana stanzetta nella casa dei genitori. E poi, come "accendi" il mutuo se non hai l'assunzione, e se hai l'assunzione, chi ti dice che ce l'avrai anche domani, con l'articolo 18 che è quasi andato, che dopo i milioni in piazza con Cofferati, ci siamo andati solo io e mio padre a votare al referendum, e davvero possiamo solo giocarcelo al lotto, questo 18, col 90, la paura? E poi pensi alla meritocrazia, alla competitività, e ti assale un dubbio semplice semplice: ma solo i bravi hanno diritto a campare? Nel passato come funzionava: gli stupidi li uccidevano alla nascita? E noi giovani come possiamo reimparare a difenderci, senza fantasticare vendette illecite, che tanto più disarmati di noi ne trovi pochi, e spiegare questa tragedia che non fa i rombi e i morti delle bombe in Iraq, ma che sta minando le speranze di un'intera generazione?
Lucia Castellini


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