Unità: Immigrati, studenti extra
Maurizio Chierici
Immigrati, studenti extra
ATTORNO ALL’AVANA Italo Calvino ascoltava i racconti della sua tata nera. Aveva tre anni. Caridad Toca ne ricordava con gli occhi sgranati. Ascoltava favole rovesciate: l’uomo nero era l’uomo buono. Salvava il bambino bianco che stava per annegare o strappava dall’incendio la famiglia bianca avvolta dalle fiamme. «Volevo fargli capire che nero non è brutto come ripetevano ai loro figli gli amici americani del professor Calvino. Vera Mameli, madre di Italo, ascoltava sorridendo. Posso continuare?, chiedevo. Puoi, va bene così». Caridad non sapeva leggere, ma le sue parole hanno accompagnato lo scrittore nelle fantasie della vita. Idealmente accompagnano le statistiche appena uscite a Bruxelles. In controtendenza con le bravate esemplari che escono dalle nostre scuole, una ricerca Ue fa sapere che gli studenti extracomunitari sono i più disciplinati d’Europa. Gli extra che vivono in Italia, addirittura al secondo posto per attenzione e voglia di imparare.Educazione, soprattutto. Non si agitano, non protestano, evitano di accodarsi al bullismo dei nostri figli bianchi, battezzati e benestanti. Sopportano in silenzio gli sguardi obliqui di una xenofobia culturale che i padroncini di casa respirano nelle loro morbide case. Il diverso resta diverso soprattutto se la faccia è da «straniero»; insomma, non proprio come noi. Ecco perché riesce difficile spiegare a lettori che scrivono un po’ arrabbiati come mai un numero crescente di genitori (più o meno consapevoli) si rifugiano nella nostalgia della razza ariana: cambiano scuola ai figli se i vicini di banco sono arrivati da lontano e colore e religione non coincidono col colore e la religione di famiglia.
Li spaventa la multiculturalità della società che avanza. Flusso inarrestabile. Vorrebbero fermarlo, ma non possono: allora voltano le spalle. Il nord delle leghe alza barricate in difesa della tradizione, ma anche nell’Italia mediterranea le buone famiglie non scherzano. Razzismo è una parola forte mentre la diffidenza mantiene l’ambiguità nel perimetro del possibile, eppure l’esclusione non cambia. Quando negli anni settanta due referendum svizzeri chiedevano al popolo di ratificare l'espulsione dei lavoratori stranieri, maggioranza lombardo-veneti e poi calabresi, pugliesi, siciliani, accusati di «inquinare la cultura della patria di Guglielmo Tell», gli svizzeri normali hanno risposto due volte no. La marcia della maggioranza silenziosa milanese (guidata dalla signora Moratti e dal cavalier Berlusconi) fa capire come in certe città questo tipo di referendum possa rischiare qualcosa anche se i genitori non sono per lo più sbracati e un'infinità di ragazzi apre le porte al volontariato, sfila a Vicenza o in piazza Navona con tanti «sì» e tante proteste quando diffidenza e violenza diventano insopportabili.
I perché della paura hanno tanti nomi ma la stessa radice: mancanza di una cultura da confrontare con la cultura dei nuovi. Il problema della cultura che pubblicità e consumismo impongono ogni giorno alle famiglie, rovescia nella schizofrenia le buone regole che la scuola distribuisce nell'insegnare alla futura classe dirigente come si sta al mondo. I ragazzi crescono educati dalla Tv: bisogna vincere, sempre vincere. Dai quiz alle gare di ballo, calcio e scommesse. Soldi e successo sono la base della nobiltà necessaria ad affrontare la vita. E i professori vengono assediati dagli allievi; malmenati dai genitori. La promozione è un obbligo sociale, il voto un'arma impropria, le buone maniere di chi parla e di chi ascolta, archeologia del passato.
Bisogna dire che la generazione spot è figlia della generazione Tv e nipote della generazione che sognava di svecchiare le abitudini in quel lontanissimo '68. Non immaginava di spalancare un certo tipo di scorciatoie a chi si è convinto di aver diritto a diventare élite di massa. Come al supermarket si compra tutto, ma non a pronto cassa. I negozietti all'angolo della strada segnavano le spese delle famiglie su quaderni da cancellare una volta al mese e abituavano ai piedi per terra. La vita nuova è un'altra. Flash e carte di credito che prima o poi bisognerà onorare. Ecco perché i tempi del successo si sono accorciati: la fretta di avere tasche piene prima della scadenza della prima rata. Stiamo allevando nell’irrealtà generazioni obbligate a trascurare la memoria con l'illusione di un futuro di plastica, ma colorato. Perché la memoria è pericolosa, la memoria obbliga a confrontare la febbre di questi giorni con la vita difficile e consapevole di prima. Consumare per esistere, ma quando il piatto è vuoto, cosa fare? Nessuno lo spiega.
E gli extra del banco accanto, intorpiditi dalla lingua che non parlano ancora bene, osservano timorosi. A casa i genitori li assillano con un imperativo al quale non possono sottrarsi: devono imparare la nostra lingua, la nostra storia e a fare i conti come si deve perché la loro patria dipende da ciò che sapranno e se non imparano continueranno a vagare da un permesso di soggiorno all'altro. Non si azzardano alzare la voce dal loro banco.
Ma non la alzano tanti ragazzi italiani: studiano e riflettono per diventare cittadini modello, eppure il silenzio che li circonda li allontana dalle generazioni precedenti. In casa con chi parlano? Padri e madri arrivano stanchi dal lavoro. Scaldano la minestra, accendono la Tv per discuterne parole e immagini che illuminano la tovaglia della cena. Un silenzio parlato che è più vuoto del mutismo di chi si apparta.
Ne hanno avuto prova autore e attori dello spettacolo teatrale Genova 01. Fausto Paravidino ha ricomposto la cronaca delle violenze che hanno sconvolto Genova: tute nere che spaccano vetrine, poliziotti mano pesante coi pacifisti senza peccato. Quando le luci si spengono sull'oratorio drammatico, Paravidino e gli attori vogliono sapere dai liceali seduti in platea se hanno capito cosa è successo. Rispondono i bravi della classe con una proprietà sconosciuta ai padri. Lui, lei e uno grande già all'università sono d'accordo: lo spettacolo li rattrista, ma non può cambiare le loro idee. Adesso sanno cosa è capitato in una città simile alla città che attraversano per andare a scuola; sanno che le istituzioni possono diventare violente, ma l'allarme lascia il tempo che trova: «Una volta è successo. Speriamo non succeda ancora. Cosa possiamo fare? Decideremo cosa fare quando succederà. Le angherie di Genova sono un pugno nello stomaco, ma la nostra vita è diversa. Fra mezzora anche il mal di stomaco passa e il nostro mondo continua senza fantasmi». Autore ed attori li incalzano sconcertati: proprio nessun impegno politico? Parole come acqua: scivolano via. I ragazzi raccontano la difficoltà di capire a quale partecipazione pubblica legare le loro speranze. Gli esempi li deludono. Nelle vostre speranze ci sono gli stranieri? «Per le speranze è ancora presto». Se ne riparla dopo il diploma, la laurea e master costosissimi che non servono a trovare il posto indispensabile per continuare la vita morbida. Ripetono: per il momento non vogliono investire nella politica, più avanti si vedrà. L'onorevole e i partiti vengono immaginati come uffici di collocamento sui quali fanno conto le amicizie dei genitori.
E gli stranieri della loro età, sfiorati nei corridoi o sui marciapiedi, restano comparse di un altro mondo. Non sempre, ma spesso. Il problema è che l'evoluzione economica e culturale di un paese è legata allo sviluppo del capitale umano, mixing tra nuove generazioni e nuove tecnologie. I diversi dalla faccia scura od occhi a mandorla faranno parte del «capitale umano» nell’Italia secolo ventuno, ma se vengono isolati nel sospetto, cosa può succedere a loro, ma anche noi? Italia a due o tre velocità saprà tenere il passo col mondo?
Il futuro non dipende da un voto bello o voto brutto; il futuro dipende dal modo in cui si struttura la società. Come includere evitando le esclusioni. Da New York arriva una lettera. L'ha scritta a Gad Lerner una giovane signora italiana che frequenta le scuole superiori a Brooklyn e nel Bronx: «Io sono quella che insegna l'inglese ai ragazzi stranieri». Lerner le aveva chiesto informazioni in previsione di una puntata dell'Infedele dedicata all'integrazione degli extra nelle nostre scuole. Con acutezza teorica e politica racconta cosa succede nelle aule dove si incrociano trenta lingue, facce e religioni: bianchi, neri, cinesi, ladini, cristiani, musulmani, ebrei, induisti. E come il grande paese cresciuto sulla mescolanza delle culture, stia pianificando il domani cominciando dalla scuola.
Lerner fa parte degli Amici di Calvino: ogni anno assegnano il premio Paolo Biocca alla migliore inchiesta che scava la realtà. Ai premi distribuiti a Torino il 17 aprile si è aggiunta questa lettera: nessuna medaglia, ma viene considerata «materiale utile per mettere a fuoco l'idea del reportage». Insomma, spiegarne la curiosità attraverso il diario della signora in cattedra. La rivista Lo straniero diretta da Goffredo Fofi la pubblicherà in giugno; Alessandro Triulzi e Marco Carsetti, educatori, l'hanno inserita nel libro Roma Tiburtina, Hotel Africa che Meridiana si prepara a pubblicare.
Sono gli appunti di una professoressa liberal quarant'anni dopo il diario di don Milani. Insegna in scuole che non sono le scuole élites per figli di manager e diplomatici, ma scuole dell’obbligo pubbliche per immigrati e rifugiati. Gli istituti rispettano chi porta il velo e ogni tradizione. I ragazzi hanno diritto alla vacanza quando una ricorrenza della loro religione lo prevede. Insegnanti e genitori lavorano assieme. Ogni studente fa parte di un gruppo che resta lo stesso per tre anni, un prof li coordina. Riunioni tre volte la settimana in ore diverse da quelle dell'insegnamento che dà il voto e quando uno studente ha un problema, l'advisor ne discute coi genitori e con l'altro professore. Non eccezionalmente; scadenze ritmate. E i genitori ascoltano, discutono, propongono. Non prendono a calci i voti spiacevoli, ma ragionano con serietà. L'inglese è la seconda lingua anche perché non sempre la lingua imparata nei paesi d'origine è stato possibile impararla bene. Una ragazza della Sierra Leone è sopravvissuta dagli incubi del suo paese: scrive e parla male la lingua che si parla in casa. Indispensabile rafforzare e non sfumare la cultura d'origine mentre impara l'inglese idioma franco di ogni classe, eppure resta la «seconda lingua».
Altro che esami di italiano per la cittadinanza. Malgrado il medioevo di Bush, gli Stati Uniti continuano ad insegnare qualcosa. «Amo molto queste scuole e, come in tutte le scuole, alcuni ragazzi ce la fanno, altri no. Sono licei e mi rendo conto che isolano provvisoriamente gli immigrati dagli studenti americani. Ho anche insegnato negli istituti pubblici normali dove, per una parte dell'orario, gli immigrati si raccolgono in una classe diversa. Magari studiano due ore nelle aule internazionali e poi imparano scienza, storia e matematica assieme ai ragazzi di New York. Devo dire che nelle aule “americane” gli insegnanti avrebbero tanto da imparare dal sistema delle scuole internazionali e dai loro maestri. L'Italia o l'America, lo vogliano o no, l'Italia e l'America stanno cambiando». E i metodi d'insegnamento e l'atteggiamento dei genitori devono adeguarsi. Non far finta di niente e scappare. «La scuola italiana punta molto sul “sapere” e il “conoscere” e non tanto sul “capire”. Forse è venuto il momento di capire. Direi che dovremmo tutti tornare a scuola...». Genitori, per primi.
mchierci2@libero.it