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Unità: Il tempo della ricerca perduta

In Italia il settore ricerca e sviluppo è in crisi; più in crisi nel nostro Paese che nella maggior parte degli altri Paesi occidentali e nei Paesi a forte crescita economica a noi più lontani

02/08/2006
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l'Unità

Vittorio Bellotti, Simonetta Coldesina, Lino Colombo, Gianmario Frigo, Guido Giuliani, Laura Obici, Paolo Ramat, In Italia il settore ricerca e sviluppo è in crisi; più in crisi nel nostro Paese che nella maggior parte degli altri Paesi occidentali e nei Paesi a forte crescita economica a noi più lontani. Vi è un elemento su tutti che descrive con forza questa crisi: «la fuga dei cervelli». Questo è un fenomeno negativo che non può essere smentito; il flusso dei ricercatori dall’Italia verso l’estero è drammaticamente aggravato dalla scarsa attrazione che esercitiamo sui ricercatori cresciuti nei grandi centri di ricerca all’estero. È un dato di fatto non discutibile che emerge da ponderosi lavori di ricerca come quello condotto da Giovanni Peri e Andrea Ichino, lo affermano allarmati editorialisti di «Nature» come Alexander Hellemans e lo constata quotidianamente chi lavora nelle nostre Università e visita regolarmente le Università straniere.

Da noi non arriva nessuno e questo fatto dovrebbe preoccuparci moltissimo. Non ci consola la cinica e rassegnata conclusione dell’editorialista David Burr che sulla rivista «Nature» scrive: «Per fortuna, in Italia, il processo di formazione dei ricercatori è così eccellente che i loro giovani sono rapidamente reclutati da prestigiose università straniere. È davvero un peccato che l’Italia abbia scelto di non approfittare della sua risorsa di maggior valore...».

Su questo fatto siamo dunque tutti d’accordo, come pure sulla necessità di preoccuparsi per quanto è accaduto e sta accadendo. Il punto su cui, forse, potremmo non concordare è invece che la società intera dovrebbe esserne preoccupata e alla società intera dovrebbe essere posto con chiarezza il problema. L’attività di ricerca scientifica è un bene collettivo? Non neghiamo che ci piacerebbe che la risposta fosse quella immaginata da Salvatore Veca secondo cui l’attività scientifica è una delle poche cose di cui la nostra civiltà dovrebbe essere orgogliosa. Su questo i ricercatori non hanno incertezze, tuttavia il loro punto di vista non è sufficiente a determinare quale priorità debba essere attribuita alla scienza e alla ricerca in un Paese. Crediamo infatti che qualunque politica per la ricerca si voglia immaginare, per essere efficace, debba fondarsi su un’ampia condivisione delle proprie finalità, costruita su un confronto aperto con le diverse anime della società che la deve realizzare. Viceversa, attualmente, la percezione è che la nostra società guardi al mondo scientifico perlomeno con disattenzione perché è un mondo sentito troppo lontano, spesso auto-referenziale e incapace di dare immediate risposte ai bisogni delle persone. Alcune esperienze di altri Paesi suggeriscono che a questo rischio di distanza e incomunicabilità si possa rispondere con iniziative anche istituzionali sull’esempio dei parchi della conoscenza genetica inglesi, nuovi musei interattivi della scienza e della tecnica a e una valorizzazione delle materie e della metodologia scientifiche nell’istruzione primaria e secondaria.

Siamo convinti che favorire un migliore rapporto tra il mondo della scienza e la società sia una grande scommessa per la crescita culturale, civile ed economica del nostro Paese. Chiunque altro ne sia convinto si faccia sentire e cerchiamo di verificare se la realizzazione di un sistema che si occupi in modo serio e impegnato di scienza e ricerca possa diventare una priorità del Paese. Se così fosse, si potrebbe guardare con forte impegno riformatore ad un sistema organizzativo complesso, pesantemente burocratizzato, che non è confrontabile, per inefficienza, con quello di nessun altro paese occidentale. È un sistema che va semplificato, in cui bisogna ridare piena responsabilità d'impresa a chi dirige progetti di ricerca, in cui bisogna creare organismi indipendenti nazionali e internazionali che valutino le attività svolte e soprattutto in cui bisogna attribuire dignità e ruolo istituzionale alle intelligenze. Chi lascia l’Italia, e coloro che non vengono in Italia a svolgere attività di ricerca, guardano al nostro paese come un luogo dove le intelligenze hanno uno scarsissimo riconoscimento sociale; il che si traduce semplicemente in un basso stipendio nei primi stadi della carriera e nessuna funzione nelle decisioni delle istituzioni. Diciamolo chiaramente: la desolante sensazione di chi lascia il Paese è quella di non avere nessun ascolto e di non contare nulla. I primi giorni di questa stagione politica sono caratterizzati dal tentativo coraggioso di riattivare la muscolatura del Paese; chi pensa che in questo progetto la scienza e la ricerca debbano avere un ruolo prioritario faccia sentire forte la sua voce.

Il gruppo di lavoro su scienza

e ricerca di «Libertà e Giustizia»

di Pavia (https://www.legpv.it/):

Stefano Ramat, Antonio Ricci


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