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Unità-Il Dovere dei Diritti-di Bruno Trentin

Il Dovere dei Diritti Bruno Trentin Si parla molto in questo periodo, anche a seguito di clamorosi scandali finanziari, in Italia, in Europa e negli Stati Uniti, di una "democrazia economica...

02/02/2005
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l'Unità

Il Dovere dei Diritti

Bruno Trentin

Si parla molto in questo periodo, anche a seguito di clamorosi scandali finanziari, in Italia, in Europa e negli Stati Uniti, di una "democrazia economica" da sancire con una legislazione appropriata a tutela del risparmiatore e dell'azionista. È una strada obbligata e urgente in un Paese come l'Italia, dove vige una sorta di legge della giungla, soprattutto dopo le malefatte legislative del governo Berlusconi. Ma sarebbe un errore pensare che è per questa strada, quella della "democrazia economica", a prescindere dalla formulazione originaria di Karl Korsch, che si può difendere, con efficacia, anche i diritti fondamentali dei lavoratori.
I fondi pensione vanno certamente incentivati, a favore dei lavoratori che dispongono di una occupazione stabile. Ma sarebbe una illusione ritenere che, per quella stessa via, sia possibile tutelare gli interessi di altri lavoratori minacciati di licenziamenti o sottoposti a processi incessanti di ristrutturazione. Vale per i fondi pensione quello che vale per altre forme di coinvolgimento dei lavoratori nel capitale dell'impresa.
In tutti questi casi, si tratta, necessariamente, di tutelare gli interessi immediati dell'azionista, che non sempre coincidono (e qualche volta confliggono) con una politica di investimenti che contiene un'area di rischio, come gli investimenti in ricerca e formazione permanente, in ecologia, e che sconta che i risultati si verificano in un tempo differito; contrariamente alle speculazioni finanziarie. Un fondo di investimenti può, nel migliore dei casi, adottare dei codici di comportamento contro il lavoro minorile, o per quanto riguarda le politiche ambientali e di prevenzione di danni alla salute personale (ed è molto importante che i sindacati si battano per ottenere, anche attraverso la legislazione, l'adozione di questi codici). Ma difficilmente esso potrebbe adottare, se non vi è indotto, con appropriati incentivi e disincentivi, un comportamento diverso da quello di altre categorie di azionisti, che privilegiano il conseguimento di un guadagno immediato, a costo di rinviare la scelta di fare investimenti strategici ad alto tasso di rischio e a rendimento differito nel tempo.
Per una sinistra e un sindacato che scommettono sull'innovazione e la valorizzazione del lavoro non esistono, invece, alternative rispetto ad una "democrazia industriale" tendente a stimolare nel management una politica fondata sull'innovazione, la ricerca, la formazione e salvaguardia, nel lungo termine, degli interessi ecologici dei territori. Gli interessi degli "stake holders" - i sindacati, i movimenti ecologisti, le istituzioni locali, i lavoratori disoccupati - non possono essere confusi con gli interessi, a breve termine, degli "share holders" - gli azionisti - se si vuole uscire dalla situazione attuale di stasi e di disorientamento di molti operatori economici, in un paese come l'Italia.
Fra la "democrazia economica" intesa ad offrire certezze a breve termine al risparmiatore e la "democrazia industriale", in una fase nella quale l'imperativo diventa la valorizzazione del lavoro attraverso la conoscenza, esiste quindi ed esisterà sempre un rapporto dialettico.
Qui sta la valenza strategica di una scelta della sinistra e del centrosinistra a sostegno dei diritti fondamentali, e, soprattutto, dei nuovi diritti fondamentali dei lavoratori, in questa fase di profonda trasformazione. Perché è su questi diritti che è possibile ricostruire solidarietà laddove c'è frantumazione di interessi e di rappresentanze. Perché è su questi diritti che è possibile ricostruire un rapporto dialettico fra la politica e la società civile. Un rapporto che si è interrotto, in questi ultimi anni, in ragione del divorzio fra una politica incapace di governare (e non subire), un processo incessante di trasformazione dell'economia e del "lavoro delle nazioni" e una società civile in crisi di rappresentanza.
Parlo di quei diritti "antichi" che acquistano una nuova importanza, in una fase di disarticolazione del mercato del lavoro, come la tutela del lavoratore e della sua dignità - soprattutto per le nuove figure sociali - in caso di licenziamento individuale senza "giusta causa". Ma parlo soprattutto di una nuova generazione di diritti civili capace di ricostruire solidarietà e coesione in una fase di così profonda articolazione della società civile.
Parlo, quindi, del diritto alla formazione lungo tutto l'arco della vita e della sicurezza che esso può garantire a tutte le figure del mondo del lavoro, dai giovani, alle donne, agli immigrati, agli anziani, in una fase in cui il lavoro tende a diventare più flessibile e più mobile; scongiurando i rischi, sempre più grandi, di precarizzazione del lavoro e di distruzione ciclica di un patrimonio di conoscenza, di sapere fare e, soprattutto, di autonomia e di dignità.
Si tratta in questo caso di un "diritto di libertà" perché non c'è libertà senza conoscenza e perché senza conoscenza non c'è soltanto una frattura insanabile nella società civile; ma ogni rapporto fra governanti e governati, a cominciare dai luoghi di lavoro, diventa oppressione e subalternità.
Parlo del diritto a partecipare al governo del tempo, nel luogo di lavoro e nella vita privata e, quindi, del diritto ad un controllo sull'organizzazione del lavoro, alla definizione di nuovi spazi di autonomia del lavoro, anche in ragione delle sempre nuove responsabilità (non più l'antica fedeltà!) che incombono sulla prestazione di lavoro nell'epoca contemporanea.
Parlo del diritto alla tutela ambientale.
Parlo del diritto all'informazione preventiva sulle trasformazioni dell'impresa e alla concertazione sui processi incessanti di ristrutturazione, sulle loro ricadute sull'ambiente, sulle politiche di mobilità del territorio, sui processi di qualificazione del lavoro e sulle politiche volte alla creazione di nuove opportunità di occupazione da parte dell'impresa coinvolta nelle ristrutturazioni o nella dislocazione di una parte delle sue attività.
È possibile prevedere e anticipare i processi di ristrutturazione, mettendo in campo una concertazione sistematica con i sindacati e con i pubblici poteri. È così possibile prevenire o comunque ridimensionare i contraccolpi sociali che derivano da questi processi. Prevedere, prevenire, guidare. In questo consiste un governo del cambiamento.
Una legislazione sulla responsabilità sociale dell'impresa, delineata nelle stesse direttive della Commissione esecutiva dell'Unione Europea, dovrebbe essere parte della politica industriale di un governo di centro sinistra.
Non penso affatto che la tematica che ho evocato esaurisca i contenuti di un programma della sinistra e del centro sinistra. Né pretendo che su queste tematiche le sole risposte che cerco di dare (...) siano, per forza, le migliori.
Ma ritengo che si tratta di questioni ineludibili, sulle quali è necessario pronunciarsi senza equivoci o con generiche affermazioni di principio; magari contraddette, poi, da comportamenti ispirati da altre priorità e da una diversa scala di valori.
Ad esempio si può contestare che la scuola, la formazione, la ricerca e l'ecologia siano le priorità inderogabili di una politica industriale "moderna". Ma se si conviene, invece, su queste scelte fondamentali, non si può suggerire nello stesso tempo, l'opportunità di una riduzione della pressione fiscale che non sia direttamente funzionale a realizzare quelle priorità.
Come non si può, in un paese gravato da un debito pubblico come quello italiano, difendere l'intangibilità di servizi pubblici fondamentali come il welfare dell'occupazione, l'educazione, la salute, la previdenza, le comunicazioni, il risanamento del territorio (al di la della loro gestione che può anche essere privata, se vincolata al rispetto delle regole pubbliche di un servizio universale) e, nello stesso tempo, indulgere nella proposta di redditi minimi garantiti e non rigorosamente vincolati alla formazione e all'occupazione dei lavoratori, (con sanzioni severe in caso di inadempienza in materia di formazione), che ne evidenzino il loro carattere non assistenziale. Sposando in questo modo la filosofia dei "vouchers" che affidano alle diverse capacità di consumo privato la possibilità di sovvenire direttamente e selettivamente ai bisogni generali che i servizi pubblici erano tenuti a soddisfare. Magari per approdare al dissesto del sistema sanitario degli Stati Uniti, che esclude dalle prestazioni gratuite la grande maggioranza della popolazione, pur risultando molto più costoso del sistema sanitario italiano.
È su questioni come queste che un programma deve scegliere, non sommando per ragioni puramente elettorali delle priorità fra loro contraddittorie. È su questioni come queste che dovrà misurarsi la solidità delle alleanze politiche, e che una Federazione dell'Ulivo potrà affermarsi come interlocutore obbligato della società civile e delle sue diverse articolazioni associative: non solo il movimento per la pace, o i "no globals", ma, prima di tutto, l'impresa innovativa e la moltitudine di figure sociali che cercano di darsi una rappresentanza e di uscire dall'isolamento nel mercato del lavoro.
È su questioni come queste che il movimento sindacale potrà conquistare una nuova rappresentatività, assumendo nuove priorità generali nella sua azione rivendicativa e nella sua politica contrattuale.
Perché non è vero che, dagli albori del socialismo ad oggi, i valori fondamentali di una sinistra moderna siano rimasti sempre gli stessi, e che la dialettica fra libertà e uguaglianza sia la stessa dell'epoca del fordismo. La dignità e la libertà della persona umana non sono mai state, come oggi, la ragione fondamentale di una solidarietà fra diversi.
Solo riconquistando un'autonomia culturale, una lettura critica delle trasformazioni sociali che maturano, in primo luogo nel rapporto di lavoro, sarà possibile uscire dalla "farsa" dei programmi che si succedono per morire subito dopo; mentre tutti invocano coralmente, e con qualche ipocrisia, la necessità di un programma che qualifichi anche la scelta dei gruppi dirigenti della sinistra e del centrosinistra.


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