Unità-Gli studenti-cittadini di Don Milani
Gli studenti-cittadini di Don Milani GIORGIO PECORINI A cinquant'anni della cacciata di don Lorenzo Milani nell'esilio di Barbiana in punizione di quelle stesse scelte "classiste" per ...
Gli studenti-cittadini di Don Milani
GIORGIO PECORINI
A cinquant'anni della cacciata di don Lorenzo Milani nell'esilio di Barbiana in punizione di quelle stesse scelte "classiste" per le quali mezzo secolo dopo alcuni cattolici vorrebbero farlo santo, Paolo Prodi (l'Unità del 4 dicembre) esorta a uscire dallo scontro frontale scuola statale-scuola privata. E, da storico scientificamente rigoroso e da cittadino socialmente impegnato, auspica "una scuola non statale né privata ma pubblica in cui le diverse scelte formative e culturali possano convivere intorno ad alcuni punti fondanti, come la difesa dei diritti umani, e nella quale le diverse comunità identitarie possano portare i loro valori". E suggerisce di ripartire proprio da Lorenzo Milani, un prete che ha fatto una scuola "assolutamente aconfessionale come quella di un liberalaccio miscredente".
Poiché questa frase di don Milani è in una lettera a me del 10 novembre 1959, mi sembra doveroso rendere testimonianza di come, in concreto, una scelta così all'apparenza contraddittoria venisse vissuta. Testimonianza di un miscredente laico, non convertito né convertendo nonostante il privilegio dell'incontro e dell'amicizia col priore di Barbiana e della frequentazione della sua Scuola.
Per profittare nel modo più corretto e insieme più utile della lezione di Milani, conviene partire da un'altra sua lettera: quella del 9 marzo '61 a Lanfranco Mencaroni, il più stretto collaboratore di Aldo Capitini nella sperimentazione di un Giornale Scuola. Capitini vi aveva scritto un articolo in difesa della scuola pubblica dello stato contro quelle private cattoliche, che " impongono le proprie idee reazionarie".
La replica di Milani (è a pagina 97 di I care ancòra edito nel 2001 dalla Emi) pare scritta apposta per mettere in confusione tutti quanti gli si avvicinano: "Scandalose sono le scuole clericali di lusso di Firenze, ma mai quanto la scuola di stato che non solo da quando la Dc è al potere, ma fin dal lontano 1860 quando guardava in cagnesco i preti, è stata sempre una fogna di propaganda padronale per nessun rispetto migliore delle equivalenti fogne ecclesiastiche".
Una cuccagna, per chi, in malafede o con l'aggravante di una buona fede inconscia fondata su ignoranza e pigrizia, in ogni testo scritto o parlato di Milani cerca argomenti in appoggio alle proprie tesi preconcette. E immancabilmente li trova, con l'antica tecnica delle estrapolazioni e citazioni monche.
Chi al contrario s'avvicina a Milani per la voglia di intenderne meglio gli obiettivi, può sconcertarsi al primo impatto, per le tante contraddizioni. Ma presto scopre quanto esse siano tutte consapevolmente paradossali, provocatorie e strumentali.
Quanto alla scuola, il problema non è per Milani (né a suo parere dovrebbe esserlo per ogni altro cittadino) di schierarsi aprioristicamente e ideologicamente pro o contro quella pubblica dello stato o quella privata della chiesa. Il problema è misurare, sul metro dell'onestà intellettuale e della lealtà civile, quali scuole puntino a costruire sudditi docili e quali invece a educare cittadini-sovrani capaci di giudicare con la propria testa e con la propria coscienza il mondo in cui vivono, per decidere se quel mondo va bene com'è, o se va cambiato, in quale direzione e con quali strumenti.
Quel che conta, per Milani, non è il padrone-gestore della scuola ma chi giorno per giorno la fa, nel rapporto diretto coi ragazzi, e come e perché la fa: il maestro. Poco gli importa che il maestro sia prete o laico, credente o laico. Che professi e dichiari o no una fede. Che sia o non sia iscritto a un partito. La differenza la vede tutta e soltanto nel suo modo d'essere e di lavorare:
"Spesso gli amici mi chiedono come faccio a far scuola e come faccio a averla piena. Insistono perché io scriva per loro un metodo, che io precisi i programmi, le materie, la tecnica didattica. Sbagliano la domanda, non dovrebbero preoccuparsi di come bisogna fare per fare scuola, ma solo di come bisogna essere per poter far scuola. Bisogna essere ... Non si può spiegare in due parole come bisogna essere (...)Bisogna aver le idee chiare in fatto di problemi sociali e politici. Non bisogna essere interclassisti, ma schierati. Bisogna ardere dall'ansia di elevare il povero a un livello superiore. Non dico a un livello pari a quello dell'attuale classe dirigente. Ma superiore: più da uomo, più spirituale, più cristiano, più tutto". (Esperienze pastorali, pagina 234. I puntini fuori parentesi quadre sono suoi).
Quel che preme, a Milani, è il modo in cui gli allievi vengono fuori dalle mani del maestro. I suoi escono così dalle sue mani, perché lui così li ha voluti e fatti:
"Alcuni vivono in grazia di Dio, altri vivono in grazia di Satana, altri servono due padroni. Di comune hanno poco (neanche l'amicizia fra tutti) fuorché un bel progresso che han fatto nel cercar di rispettare la persona dell'avversario, di capire che il male e il bene non son tutti da una parte, che non bisogna mai credere né ai comunisti né ai preti, che bisogna andar sempre controcorrente e leticare con tutti e poi il culto dell'onestà, della lealtà, della generosità politica e del disinteresse politico. Insomma bravi figlioli!". (Lettera del 25.6.'51 a Gian Paolo Meucci)
Il solo consiglio che si sente di dare agli amici è conseguentemente di mettersi a far scuola popolare. E aggiunge: "La scuola sarà evidentemente intitolata a Socrate e non al Sacro Cuore (&). Non consegneremo (agli allievi, ndr)le cose che abbiamo costruito e che stanno cadendo da tutte le parti, ma solo gli arnesi del mestiere perché costruiscano loro cose tutte diverse dalle nostre e non sotto il nostro alto patrocinio né paterna compiacenza". (Lettera del 2 marzo '55 ancòra a Meucci)
Né una scuola, per essere buona cioè vera fabbrica di cittadini-sovrani, deve essere per forza "cattolica, cristiana o religiosa. Può essere anche ... Può venir fuori un buon comunista dalla mia scuola. E' evidente" (intervento al convegno fiorentino dei direttori didattici del 3 gennaio 1962). E altrettanto evidente è che mai sarebbe potuto uscirne un fascista, essendo costituzionalmente antifacisti i suoi valori, i suoi obiettivi, perfino i suoi strumenti didattici. Questo è il senso di una scuola "assolutamente aconfessionale" nonostante a farla sia un prete che per sè la tiene addirittura "sacra come un ottavo Sacramento" (Esperienze pastorali, pagina 203):
"In sette anni di scuola popolare non ho mai giudicato che ci fosse bisogno di farci anche dottrina. E neanche mi son preoccupato di far discorsi particolarmente pii o edificanti. Ho badato solo a non dir stupidaggini, a non lasciarle dire e a non perder tempo. (...) Quando ci si affanna a cercare apposta l'occasione di infilare la fede nei discorsi, si mostra di averne poca, di pensare che la fede sia qualcosa di artificiale aggiunto alla vita e non invece modo di vivere e di pensare". (Esperienze pastorali, pagina 238)
È un punto su cui batte e ribatte a ogni occasione, e all'occorrenza le occasioni se le crea, perché vuole che si "metta il dito su questo aspetto profondo e imprevisto del confessionalismo scolastico: i suoi più accaniti difensori sono i cattolici di più vacillante fede". (nella stessa lettera a me del 10.11.1959)
Uno fra i primi e più assidui allievi della sua prima scuola, quella di San Donato di Calenzano, Giorgio Pelagatti, testimonia:
"Don Lorenzo arrivò a togliere il crocifisso (dalla scuola, ndr), a metterlo sull'armadio di un'altra stanza. Se lo immagina che cosa generò con un gesto simile? Tra l'altro, quello era il locale dove si tenevano anche le riunioni dell'Azione cattolica, delle figlie di Maria eccetera. Tolse il crocifisso perché non doveva esserci neppure un simbolo che facesse pensare che quella era una scuola confessionale. Lì c'erano solo uomini che studiavano e discutevano per la propria elevazione civile e morale". (Dalla parte dell'ultimo di Neera Fallaci, pagina 155)
Gira e rigira, il problema resta sempre lo stesso: "come bisogna essere per poter far scuola":
"Finora si diceva che la scuola statale è un progresso rispetto alla privata. Ora bisognerà ripensarci e rimettere la scuola in mano d'altri. Di gente che abbia un motivo ideale per farla e farla a noi (respinti dalla scuola pubblica dell'obbligo, ridotta a "ospedale che cura i sani e respinge i malati" - Lettera a una professoressa, pagina 89)". Attenti però a non cadere nel trabocchetto di rimettersi nelle mani dei preti:
"Una volta c'era la scuola confessionale. Quella un fine l'aveva e degno d'essere cercato. Ma non serviva gli atei. Tutti aspettavano che (voi, parlamentari e governanti laici)la sostituiste con qualcosa di grandioso. Poi avete partorito il topolino: la scuola per il tornaconto individuale. Ora la scuola confessionale non esiste più. I preti hanno chiesto la parificazione e danno voti e diplomi come voi. Anche loro propongono ai ragazzi il Dio Quattrino".
Padre Ernesto Balducci, scolopio, condivide e spiega:
"Chi dinanzi a questa funzione della scuola ancòra si preoccupa dello "specifico cristiano", non è in grado di comprendere la testimonianza di Milani, anzi di comprendere il senso profondo del vangelo. (...) Che senso ha, allora, la distinzione tra scuola laica e scuola cattolica? Se nei fatti la distinzione sopravvive è perché ambedue ritagliano la loro diversità in un dogmatismo ideologico di diverso segno, in cui il ragazzo è visto come un soggetto da acculturare, insomma come preda di caccia". (L'insegnamento di don Lorenzo Milani, a cura di Mario Gennari, Laterza 1995)
Digressione lunga forse, ma necessaria a non fraintendere il senso della lettera-replica a Capitini del 9 marzo '61. Chi vuol distorcerla e usarla a vantaggio della propria bottega laicista o integralista, s'accomodi: lo ha già fatto e seguiterà a farlo. L'essenziale è lasciargliene la responsabilità piena. Gli altri scopriranno il rigore della sua coerenza e ne rimarranno affascinati.
Perché l' obiettivo di Milani, dichiarato e perseguito caparbiamente con ogni mezzo, è dare ai suoi ragazzi, e insieme proporre a tutti, gli strumenti utili ad acquisire consapevolezza critica, autonomia di giudizio, responsabilità di scelta e di decisione, l'orgoglio della dignità di cittadino-sovrano. L'opposto esatto dell'imbonimento e del rimbambimento mediatico volto a fabbricare consumatori acritici, elettori obbedienti.
L'accenno di Milani, trascritto sopra, ai guai recati alla scuola italiana "da quando la DC è al potere", cioè da una quindicina d'anni, è del 1961. Paolo Prodi, che se ne intende anche per essere stato chiamato un'altra quindicina d'anni dopo a dirigere l'ufficio studi del ministero della pubblica istruzione e venirne quasi sùbito cacciato per "eccesso di autonomia", aggiunge oggi: "Trent'anni fa nel 1974 fu persa una grande occasione (&)con in cosiddetti "decreti delegati" per non aver colto i tempi e per un certo conservatorismo sindacale che concepiva i problemi scolastici più come problemi degli addetti ai lavori che degli studenti e del paese".
Testimone esterno, da cronista impuntigliato anche di quel tempo e di questa realtà, io aggiungerei che il fallimento dei decreti delegati più che un'occasione persa fu un premeditato, lucido e perverso disegno dei governi e dei ministri di allora quasi ininterrottamente democristiani o comunque, nei brevissimi intervalli liberal-repubblicani-socialdemocratici, allineati senza riserve alle scelte e agli interessi della DC: il disegno di svuotare il nuovo strumento di qualsiasi contenuto e potenzialità democratica.
Campione dell'impresa, il ministro Franco Maria Malfatti, dc.
Infine, al sacrosanto accenno di Prodi alle responasabilità sindacali, vanno aggiunte quella dei partiti storici della sinistra, il vecchio PCI in testa, preoccupati allora più di frenare le "fughe in avanti" di una parte delle proprie basi che di tutelare autonomia e libertà della scuola, di difenderne l'insostituibile funzione di stimolo alla maturazione civile ancor prima che culturale dei cittadini.