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Unità: Epifani: non permetterò che la Cgil sia messa all’angolo

Questo governo cerca il nostro discredito e non c’è dubbio che lo faccia in un clima generale in cui si prova a fare a meno del sindacato.

20/09/2008
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l'Unità

Concita De Gregorio

Waterloo. Caporetto. Titoli senza troppa fantasia, certo: giusto per capirsi. Il sindacato – la Cgil, tra i sindacati – è arrivato alla fine. Due volte il disastro Alitalia collassa a un passo dalla meta, due volte il dito è puntato contro il sindacato. Sono stati loro, è colpa loro. Un sentimento diffuso, un senso di estraneità alle storiche forme della battaglia sindacale che contagia ormai anche il cinema, nel cinema i registi di sinistra: nel documentario sulla Thyssen di Calopresti i sindacalisti inzuppano la brioche nel caffellatte mentre la Lega fa reclutamento nelle fabbriche, nel film di Virzì sui call center al difensore dei diritti dei precari attaccano i bigliettini di scherno sulla schiena. Battaglie di retroguardia, conservatorismo miope. È notte, ormai. È la notte fra giovedì e venerdì, Cai ha ritirato l’offerta. Guglielmo Epifani arrotola al gomito le maniche della camicia, la cravatta è allentata. Tiene in mano la lettera datata “Roma, 18 settembre” e indirizzata a Colaninno. Comincia così: «Signor presidente, come d’intesa le confermo la nostra adesione e la nostra firma all’accordo quadro…». Finisce con una firma, appunto: la sua firma. Epifani aveva firmato, Colaninno sapeva dal giorno prima che lo avrebbe fatto: «Come d’intesa», se lo erano detti. «Bisogna stare molto attenti – dice adesso che è davvero tardi con la voce arrochita dalla giornata campale – bisogna davvero evitare di cadere nella trappola di questo governo: è chiaro che a loro faccia comodo dire che siamo stati noi ma non è così. Ecco la lettera, i fatti sono questi. Noi non abbiamo difeso i piloti: abbiamo provato a convincerli. I due terzi del personale di volo non è rappresentato dalla Cgil. Non si poteva arrivare ad un accordo senza di loro. Lei può fare il giornale senza i giornalisti? Ecco, è così. Poi io credo che le ragioni che hanno portato al fallimento dell’intesa siano più ampie di quel che appare: sulla decisione simultanea e unanime dei componenti della cordata devono aver pesato molti elementi, diverso tipo di pressioni a partire dal quadro catastrofico internazionale per finire a motivi di equilibrio politico. Sia come sia: dev’essere chiaro che i piloti hanno sei o sette rappresentanze diverse, sono una somma di corporazioni. C’è stato un tentativo di mettere all’angolo la Cgil che è passato da lì. La Fiat dell’80 non c’entra niente, semmai qui è il contrario».

Sia come sia, Epifani, lei è ritratto oggi come l’esecutore testamentario di un sindacato in agonia: un fatto culturale prima che tecnico. La Cgil frena, ferma, blocca e oltretutto non rappresenta più i giovani, i lavoratori precari che temono di associarsi perché ricattati dalla “flessibilità”: il sindacato così com’è non è più di questo tempo. «È certamente questo il messaggio che si vuole far passare. Questo governo cerca il nostro discredito e non c’è dubbio che lo faccia in un clima generale in cui si prova a fare a meno del sindacato. Però vede: è proprio a questo tentativo che dobbiamo fare argine e dobbiamo farlo partendo dai fatti. La Lega nelle fabbriche, lei dice: benissimo. Però nelle fabbriche votano Lega ma sono iscritti alla Fiom. Non posso dire tutti ma molti, moltissimi. Allora è un altro il problema: è la cerniera fra il sindacato e la politica, fra il sindacato e il partito che si è indebolita. I nostri tassi d’iscrizione sono sempre altissimi, molto più alti che altrove in Europa. Non c’è più un prototipo di lavoratore, la realtà è variegata. Certo: un tempo si arrivava al sindacato attraverso la politica. Certo, le generazioni più giovani sono sottoposte al ricatto del datore di lavoro in nome della flessibilità ed hanno paura di aderire al sindacato. I precari non si iscrivono, è vero: sono spaventati. La campagna ostile al sindacalismo è stata potentissima: è la politica che deve battersi contro questo tentativo di ostracismo». E non lo fa, sottintende Epifani: non lo fa abbastanza. La “cerniera” fra sindacato e partiti di sinistra: quella si è sciupata. «Sono convinto che su Alitalia alla fine Berlusconi ricorrerà all’ennesimo colpo di teatro. È una gestione del paese fatta di continui colpi di scena. Non è così che si tutelano i diritti, non così si conserva la democrazia. Noi abbiamo agito come sempre con senso di responsabilità e mi creda, questa volta in specie con una disponibilità estrema. Prima di suonare il de profundis del sindacato bisognerebbe guardarsi attorno: abbiamo affrontato la questione di cinquemila esuberi in Telecom, sei o settemila saranno quelli di Alitalia, quattromila quelli di Merloni. Quando si parla di quindicimila lavoratori bisogna contare da uno a quindicimila e soffermarsi a pensare che ogni numero è una persona. Ci vogliono ore a contare: uno sono io, uno è lei, provi a immaginare. Altro che Caporetto. Siamo nel pieno della guerra e dobbiamo crederci, dobbiamo restare fermi qui non arretrare di un passo davanti all’offensiva populista. Dobbiamo vincere».


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