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Unità: Epifani: dalla crisi usciremo solo con un’Italia più giusta

Il leader della Cgil: il lavoro paga gli errori delle imprese, la speculazione finanziaria, la caduta morale del capitalismo. È l’ora di scelte coraggiose

01/05/2009
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l'Unità

Il terremoto impone la ricostruzione, non solo di paesi e città. «È l’occasione per risollevare l’economia o dargli il colpo di grazia», dice Guglielmo Epifani. Anche la crisi può servire a cambiare: «Ma servono politiche coraggiose, per questo incalziamo il governo».

Primo Maggio tra tende e macerie, nel pieno di una crisi mondiale. Non è come gli altri: che significato ha?

«Vogliamo richiamare l’attenzione sulla condizione del lavoro nella crisi e porre di nuovo la necessità di politiche di sostegno. E vogliamo portare un messaggio di solidarietà e di vicinanza alle popolazioni dell’Abruzzo. Non è testimonianza: si deve ricostruire, oltre ai paesi, il tessuto produttivo e quindi il lavoro e l’occupazione. L’Aquila è stata un grande centro industriale, poi ha visto chiudere importanti insediamenti. Il terremoto può dare il colpo decisivo alla de-industrializzazione oppure la possibilità di una ripresa».

Anche la crisi può essere servire a ricostruire correggendo gli errori?

«La crisi è sempre un processo di trasformazione. Può essere l’occasione per cambiare segno, ma servono politiche coraggiose. Finora non si sono viste. Il governo galleggia, non ha una politica industriale, non sostiene la filiera, il prodotto, investe le stesse risorse per dieci usi diversi. Non aiuta le persone in difficoltà. Poi c’è un un problema che non riguarda le condizioni materiali».

E cosa riguarda?

«Quelle più generali, di giustizia, di legalità. Il mondo del lavoro non ha la responsabilità di questa crisi che è invece figlia della irresponsabilità dei mercati finanziari, della speculazione, del profitto fatto attraverso il denaro, senza la responsabilità delle conseguenze. C’è quindi un problema morale. Va affrontato ristabilendo l’idea forte di far profitti attraverso il lavoro, la produzione, la fatica e le capacità. Deve esserci giustizia redistributiva, chi non ha responsabilità non deve pagare due volte».

Perché dovrebbe?

«Perché se ci si ritrova con una base produttiva ridotta o un deficit pubblico più alto, si andrà incontro ad altri sacrifici o alla ripresa dell’inflazione che colpirebbe ancora i redditi da lavoro e da pensione».

L’aria d’ottimismo che tira proprio non la sfiora. Anche mercoledì Tremonti ha detto che la crisi è alle spalle.

«Non c’è bisogno di ottimismo di maniera. È stato calcolato che l’effetto della contrazione dei consumi e degli investimenti sarà molto amplificato rispetto alle crisi precedenti e passerà molto tempo prima di poter archiviare tutto. L’ottimismo è quello della volontà: si deve e si può uscire dalla crisi solo con le politiche giuste. Altri paesi le stanno facendo. Noi incalziamo il governo perché le faccia».

A proposito di altri paesi: Fiat e Chrysler, è un Primo Maggio segnato anche da questo. Che cosa cambia nell’industria italiana dell’auto?

«Conclusa, è una signora operazione per la Fiat che entra nel capitale di controllo di una grande azienda - sia pure in crisi- dell’automobilismo statunitense e mondiale, un’azienda integrabile per i prodotti a fascia medio-alta e per la collocazione geografica».

Queste le rose. Le spine?

«Riguardano le sinergie di sviluppo. Non si possono lasciare gli stabilimenti italiani al loro destino, in un gruppo che produce 4 milioni e mezzo di auto non possono essere solo 600mila quelle prodotte in Italia».

Il governo Obama è protagonista di questa operazione. Il governo Berlusconi ha un ruolo?

«È importante che si faccia parte attiva e che ci sia un tavolo con Fiat sindacati e governo che affronti il futuro dell’industria dell’auto. Va detto: veniamo da anni in cui ci è stata spiegata la forza, il primato del mercato, mentre questa è un’operazione tutta pubblica, in cui il mercato non c’entra nulla. È stata voluta e gestita dal governo degli Stati Uniti».

Ovvero la patria del libero mercato.

«Infatti. Vorrei che si riconoscesse che nella patria del mercato libero c’è un ruolo del governo così determinante; nel nostro paese dell’”economia sociale di mercato”, come la chiama Tremonti, per avere un po’ di sostegno all’industria dell’auto abbiamo dovuto insistere e lottare. È questa asimmetria che mi preoccupa, e non vale solo per l’auto. E vorrei che anche Fiat e Confindustria riconoscessero questo ruolo pubblico».

Oggi Cgil, Cisl e Uil sono sul palco insieme. Le polemiche sono rinviate a domani?

«Bisogna capire quando è il momento di stare uniti nonostante le divisioni e poi, ognuno con le proprie motivazioni, tenere aperto il fronte del confronto e anche della polemica. A una condizione però: la si smetta con gli insulti verso la Cgil e le sue categorie. È inaccettabile. Insultare offende, ma è anche è un grande segno di debolezza perché chi ha argomenti forti li espone e si ferma lì. Se invece non fai altro che insultare gli altri, vuol dire che ti senti molto debole».


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