Unità: Dottorandi nel sistema Italia
Un mondo da riformare
Luigi Cancrini
Viviamo in Europa, in uno dei Paesi più ricchi del mondo, mondo che è percorso tuttavia dalla sofferenza silenziosa dei vinti, da storie di emarginazione e violenza che non fanno notizia.
Vorremmo dare spazio, in questa pagina, alla voce di chi rimane fuori dalla grande corsa che ci coinvolge tutti, parlando dei diritti negati a chi non è abbastanza forte per difenderli. Sono proprio le storie di chi non vede rispettati i propri diritti a far partire il bisogno di una politica intesa come ricerca appassionata e paziente di un mondo migliore di quello che abbiamo costruito finora.
Scrivete a cstfr@mclink.it
Sono dottorando di ricerca da circa un anno e vi seguo sempre con interesse.
Ho iniziato a gennaio di quest’anno ed ero posizionato 5° su 6 posti disponibili. Le borse di studio (l’unico vero sostentamento che ci viene attualmente garantito) erano riservata solo alla prima metà di questi. Tuttavia la presenza prima di me di un dottorando in aspettativa e di un altro assegnista di ricerca aveva fatto supporre, stando al bando di concorso, che avrei percepito io una borsa di studio. Cosa che mi è stata prontamente negata, dato che è stato reso possibile all’assegnista di rinunciare al proprio assegno (ovviamente incassando quando dovuto fino ad allora!) e scipparmi letteralmente l’importo, già misero di suo, che tuttavia mi spettava. Una vera e propria guerra tra poveri (si fa per dire, nel caso della persona in questione).
E non finisce qui. Il mio tutor per «venirmi incontro» (si fa per dire anche qui) mi ha prospettato un periodo di stage aziendale di 3 mesi, nei quali avrei ricevuto una copertura economica praticamente equivalente a 3 mesi di borsa. Salvo che poi le promesse sono state ancora una volta smentite dai fatti, dato che alla fine del lavoro l’azienda stessa ringrazia sentitamente ma si rifiuta di pagarmi, dato che si trattava di mera (secondo loro) attività formativa che non meritava alcuna retribuzione. Nella situazione difficile in cui mi trovo, sono stato mandato a lavorare gratis, perennemente sorvegliato dalla “vigilanza aziendale”, senza alcun contratto né assicurazione né buoni pasto, mentre stando alla cosiddetta legge da dottorando non avrei neanche potuto farlo.
Mi chiedo come possa continuare a fare il dottorato per cui ho “sudato” così tanto (il concorso l’ho vinto senza l’appoggio di alcun docente, tra l’altro), sopravvivendo in uno scenario talmente desolante.
Grazie per lo sfogo.
Salvatore
La situazione dei dottorati di ricerca in Italia è una situazione di cui poco si parla e molto si dovrebbe invece parlare. Nel bene e nel male, il dottorato è l’istituto che regola, ormai da alcuni anni, l’accesso alla carriera universitaria nel senso che pochissime sono le persone che entrano nell’università senza aver fatto un dottorato. Anche se, ovviamente, non tutti quelli che lo hanno fatto entrano poi nell’università. Proponendo un problema che chiede decisioni importanti.
Per quello che riguarda gli accessi, prima di tutto, bisogna assolutamente evitare che il dottorato di ricerca sia considerato dai docenti dotati di maggiore potere come uno strumento da utilizzare per loro fini personali. Le commissioni che assegnano il dottorato di ricerca sono formate dagli stessi docenti che ne hanno ottenuto l’istituzione e che hanno poi la responsabilità di condurli. È del tutto naturale ed umano, in queste condizioni, che i docenti scelgano a chi dare il dottorato prima che lo stesso venga istituito e c’è un solo modo, a mio avviso, di modificare radicalmente questa situazione: quello del bando nazionale con commissioni organizzate dal Ministero che potrebbero distribuire i dottorati di ricerca tenendo conto delle discipline in cui ce n’è più bisogno e che potrebbero predisporre delle graduatorie basate sul merito. Sarebbero i primi in graduatoria a questo punto a scegliere la sede dove portare avanti i loro studi e le loro attività di ricerca. Favorendo gli scambi fra le diverse università e mettendo un po’ d'aria fresca nel clima asfittico delle carriere progettate a tavolino.
La seconda questione riguarda il modo in cui si svolgono i dottorati di ricerca. Quello che accade spesso, in una situazione caratterizzata dal nepotismo o dalle promesse di “carriera”, è un asservimento del giovane ricercatore alle esigenze di una università sempre in affanno nello svolgimento dei suoi compiti istituzionali. So benissimo che non accade sempre così, che vi sono docenti e intere facoltà o università in cui il dottorando viene aiutato a svolgere una vera attività di ricerca con l’aiuto e la supervisione di persone altamente qualificate. Quello cui si deve pensare, tuttavia, è il grande numero di situazioni in cui questo non accade ed in cui la ricerca resta solo un pretesto. Anche qui, ovviamente, il potere collegato all’essere inserito in una graduatoria nazionale e all’esercizio di un potere di scelta da parte di un dottorando che non è un dipendente di docenti che gli hanno fatto “il piacere” di chiamarlo e che sono gli arbitri del suo futuro potrebbe determinare dei cambiamenti importanti.
L’ultima questione è quella che riguarda il pagamento dei dottorandi. Borse di studio povere e incerte come quelle di cui lei parla nella sua lettera possono essere considerate come un utile argent de poche da parte di giovani che hanno alle spalle delle famiglie ricche. Non sono sufficienti a vivere da parte di quelli che non le hanno. In un modo o nell’altro quella che si ripropone attraverso i dottorati di ricerca è una forma di selezione di classe per i futuri docenti universitari.
Se non si riuscirà a porre mano in tempi ragionevoli a questo stato di cose, il quadro è, purtroppo, un quadro desolante. I dottorati di ricerca si definiranno sempre di più come uno strumento di potere nelle mani dei docenti che contano di più. Entrare e fare carriera nell’università dipenderà sempre di più, per molti dei nostri giovani, dalla forza delle famiglie e dalla capacità di accattivarsi le simpatie e la protezione dei loro “baroni”.
Quello di cui ci rendiamo conto sempre troppo poco, in questo Paese, è la quantità di cinismo e di sfiducia nelle istituzioni che questo modo di procedere fa crescere nella testa e nel cuore di quelli che, con tanto entusiasmo e con tanta voglia di crescere, si affacciano al mondo della ricerca e dell’insegnamento. Ci sono serie ragioni di ordine morale oltre che di ordine economico in quella fuga dei cervelli di cui tanto poi ci lamentiamo perché pochi sono davvero i paesi occidentali in cui la logica degli accessi e delle carriere si sviluppa intorno a regole così squallide e così selvagge. Dobbiamo partire da qui, credo, da una svolta forte nelle politiche che regolano gli accessi e le carriere dei giovani al mondo della ricerca per ridare competitività al sistema Italia. Anche se sono ancora in pochi quelli che guardano al problema utilizzando anche questo punto di vista.