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Unità: Diario di un povero prof

Tagli all’Università

23/07/2008
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l'Unità

Giulio Ferroni

Davvero subdolo l’attacco all’università portato dal decreto 112: sotto il paravento dei tagli di spesa si mette in moto un processo che tende a indebolire l’università pubblica, muovendo verso forme di privatizzazione il cui esito non può essere che distruttivo: la quasi totale riduzione del turn over rende praticamente impossibile la già difficoltosa possibilità di arruolamento delle giovani generazioni; la decurtazione dei fondi per il funzionamento e per la ricerca blocca l’esercizio di molte delle attività programmate; la trasformazione delle università in Fondazioni conduce all’ingresso in esse (dentro quelle che ci riusciranno) dei privati, con ruoli sempre più determinanti. Un punto relativamente marginale ma fortemente punitivo verso la classe docente è costituito poi dal rallentamento degli scatti biennali di carriera, che tra l’altro penalizza in primo luogo proprio i giovani ricercatori da poco assunti, i cui stipendi sono peraltro molto bassi. Ma proprio la questione degli stipendi viene presa come punto di attacco e di propaganda a sostegno del disegno di privatizzazione.

Proprio il berlusconiano "Giornale" è partito in quarta qualificando i professori universitari in blocco come fannulloni, che intascano una barca di soldi (all’incirca 10.000 euro al mese) lavorando solo 3 ore al giorno: e fa i conti nel portafoglio dei professori ordinari e di alcuni magnifici rettori, usando artatamente le cifre (senza tener conto delle detrazioni fiscali e previdenziali: e in effetti, tenuto conto di tutto, un professore alla fine della carriera guadagna meno della metà della cifra indicata dal "Giornale"). Ma è proprio vero che i professori lavorano così poco? e cosa significa questo populistico esporli al pubblico ludibrio?
Io mi guardo intorno, nell’università dove insegno da molti anni, e vedo certamente alcune sacche di privilegio, personaggi che riescono a muoversi dentro l’istituzione accademica con una presenza evanescente e poco incisiva. La grande maggioranza dei docenti, però è lì, pronta a confrontarsi quotidianamente con una serie di incombenze che vanno molto al di là delle lezioni, degli esami e dei colloqui con gli studenti. Il carico didattico si è amplificato notevolmente negli ultimi anni: i nuovi ordinamenti introdotti dalla riforma Berlinguer- Zecchino hanno portato alla moltiplicazione dei corsi e delle funzioni di tutoraggio; le difficoltà organizzative delle strutture universitarie (dovute proprio alla scarsità di risorse) costringono molti di noi ad intervenire anche su campi che sono lontanissimi dalle loro qualifiche scientifiche e disciplinari. La gestione della vita accademica e gli svariati compiti istituzionali richiedono continue riunioni di organi collegiali, che portano via intere giornate, Ci sono poi i seminari, i corsi di dottorato di ricerca, le iniziative scientifiche e culturali, gli scambi internazionali, ecc. Molte sono le giornate in cui si sta in Facoltà dal mattino alla sera, tra incombenze di ogni sorta, spesso in spazi ridottissimi, appena vivibili. Non bisogna poi sottovalutare (come invece fanno allegramente i compilatori del "Giornale") l’impegno della ricerca, che nelle Facoltà scientifiche richiede spesso una presenza in laboratorio per tutti i giorni della settimana e che per tutti comunque impone un lungo lavoro di organizzazione, di progettazione, di studio e verifica. Anzi, nella situazione attuale sono proprio le molteplici incombenze istituzionali a sottrarre tempo alla ricerca. Se si invece vuole mantenere la didattica universitaria ad un livello "superiore", è tanto più essenziale che essa (anche quella di primo livello, solo in apparenza più semplice e ripetitiva) scaturisca da un fecondo e diretto rapporto con la ricerca, una ricerca che deve per giunta essere sostenuta da uno scambio con i più alti livelli internazionali della cultura, della scienza, della tecnologia. Per fare tutto ciò, in un questo quadro internazionale da cui è miope prescindere, non basta la giornata piena. Molti professori sono in realtà assillati dall’insufficienza del tempo a disposizione, dalla scarsità di spazio che rimane per portare a compimento i lavori di ricerca (quasi sempre, del resto, aspettiamo il tempo delle vacanze per poterci dedicare a tempo pieno proprio a certi lavori che non si riescono ad espletare nel corso dell’anno, ma il cui effetto positivo ricade poi sul successivo lavoro didattico).
In definitiva questi attacchi populisti ai professori universitari sembrano tendere anche a colpire il prestigio sociale dell’università, a limitare lo spazio di libertà dei docenti, ad approfondire la divaricazione tra ricerca e didattica, sottraendo definitivamente all’università pubblica la funzione di punta avanzata della scienza e della cultura del paese. È vero peraltro che l’università è in crisi, come gran parte delle strutture portanti di questo paese; ma il disegno attuale mira ad approfittare di questa crisi per trasferire nell’ambito del privato (e di coloro che sono in grado di sostenere i costi imposti dal privato) i livelli di eccellenza, trasformando quanto rimarrebbe dell’università pubblica in agenzia subalterna, parcheggio per gioventù destinata a funzioni di secondo piano, per un popolo di consumatori esclusi dal controllo dei vertici della conoscenza e dalla coscienza critica. Questa è la posta oggi in gioco: tanto più occorrono risposte forti e rigorose, non semplici difese dello status quo, ma attivi interventi per una rifondazione e un rilancio dell’istituzione universitaria, come motore centrale della vita democratica del paese.


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