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Unità: Diario di un Diverso

Si apre, nel cuore dei “diversi”, una ferita, che la sera si cerca di alleviare e la mattina, al solo pensiero dell’incontro con la classe, si riacutizza

28/07/2007
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l'Unità

Luigi GalellaHo sempre avuto il terrore che mi «riconoscessero». Che per me parlassero i miei gesti, il modo in cui mi siedo al banco, il timbro infantile, la consistenza sottile della voce. Mi chiedevo: sono abbastanza «virile» o spontaneo? E ho sempre temuto, di contro, che lo sguardo degli altri mi facesse diventare ciò che intimamente non sento di essere.O non vorrei essere. Che mi spingesse verso una precisa “natura” o “identità”. Parole come normalità o diversità mi rendevano furioso. Mi ripetevo: perché dovrei dire «chi sono»? È come se nella società tutti ti esortassero a scegliere, a dichiararti, quando per me che ho 17 anni il problema è proprio questo.

Ho vissuto gli ultimi anni nell’attesa di una rivelazione, che cioè si liberasse dentro di me una voce. Nel frattempo mi camuffavo negli altri, parlavo e vestivo come loro, ridevo delle loro battute, che a volte mi davano la nausea, partecipavo e a volte promuovevo i loro giochi, passatempi cretini, qualche volta sadici o perversi, a scapito di professori o di compagni. E mi dicevo: o si gioca o si è giocati. O si sta da una parte o dall’altra, e vince chi attacca per primo. C’è stato un momento in cui ho rischiato perfino la parte del “bullo”, anche se ho avuto il coraggio di sottrarmene in tempo.

Mi sembrava di navigare fra i relitti delle mie sparse e incompiute identità. Avendo paura di scorgere qualcosa, dentro di me, che mi facesse affondare, o che la mano che mi avrebbe tirato fuori fosse proprio quella del mio carnefice. E intanto le vedevo scorrere davanti a me, le storie dei miei compagni, meno timorosi di interpretare le “parti” che la società assegna. Sembrava che tutte abitassero in me, ma in loro vivevano.

La storia di Marina, timidissima, che parlava con voce esile e bassa, carina, ma di una bellezza antica, acqua e sapone, che le sue compagne criticavano proprio per questo. Acqua e sapone, sì, ma senza deodorante. Prima emarginandola fisicamente - come se già non si fosse lei stessa estraniata - e poi arrivando a denunciarne «l’odore» ai professori. In classe non si respira. Marina puzza, in maniera intollerabile. La diversità nell’odore. O la storia di Andrea, che chiedeva ai professori chiarimenti su ogni cosa, e che sedeva al primo banco, solo. Diverso perché insicuro e ossessivo. Che si guardava intorno quando parlava per decifrare gli sguardi degli altri e capire se intendevano ferirlo. Sapeva di non essere come loro, di capire le cose più lentamente, e percepiva attraverso i loro occhi il giudizio pietoso, che lo rendeva ancor più insicuro. O le storie di quei ragazzi troppo bassi o grassi. Di altre nazioni o religioni. Discriminati per le idee, per il colore della pelle, per la troppa o poca carne addosso. O di quelli che in classe hanno paura di leggere a voce alta perché non hanno mai imparato. Che balbettano impacciati, goffi. O di coloro, che sono in tutto e per tutto come gli altri, ma che il gruppo ha relegato in quel ruolo. Perché la diversità può essere anche semplicemente il frutto del caso, una battuta sbagliata, una risata fuori luogo. Se decidono che porti sfiga, ad esempio, sei morto.

Le piccole, grandi offese di ogni giorno stabiliscono le distanze tra sé e gli altri. Si apre, nel cuore dei “diversi”, una ferita, che la sera si cerca di alleviare e la mattina, al solo pensiero dell’incontro con la classe, si riacutizza. Si pensa ai sorrisi, e il pensiero è ancora più intollerabile della realtà, perché genera la paura, il terrore di rivederli. Si pensa a quando si entrerà in aula, circondati dai corpi, dai commenti a bassa voce, dalle tacite intese degli occhi. E si pensa al proprio rossore incontrollato e compulsivo, che si scatena per un nonnulla, e sempre nasconde il proprio segreto. E si conclude infine che la propria esistenza è un calvario che non avrà mai fine, perché sempre ci sarà qualcuno, in futuro, che ricorderà agli altri ciò che si è stati.

Il prossimo anno avrò la maturità e mi chiedo se accadrà qualcosa nella mente e nel comportamento di noi ragazzi. Se la conclusione del ciclo scolastico coinciderà con l’emancipazione dal conformismo. Ma sono scettico. E la ragione del mio scetticismo è nella natura dei “normali” - e io tra questi - che ho osservato a lungo. Perché se è vero che i “diversi” hanno paura del contatto con gli altri e tendono a sfuggirli quanto più è possibile, i normali ne hanno un vero terrore. L’ho capito quando, tempo fa, ho guardato un ragazzo della mia classe, “normale” come me, e ho visto che mi sorrideva «in un certo modo». Nei desideri di entrambi che si incrociavano ho visto disintegrarsi la faticosa costruzione del mio «io» e ho avuto un tale terrore delle conseguenze che mi sono immediatamente ritratto dietro il consueto schermo. Di un ragazzo, cioè, che allo stesso modo vorrebbe fuggire normalità e diversità, perché alla prima non riconosce legittimità e alla seconda non concede, ancora, una dignitosa possibilità di esistenza.


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