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Unità: Come si affossa l’università pubblica e di massa

L’Italia utilizza una percentuale irrisoria del Pil per l’istruzione Virtuosi Svezia e Finlandia investono il doppio del nostro paese

20/07/2009
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l'Unità

L’Italia è il paese in Europa che investe meno in università e dove i professori devono seguire il maggior numero di studenti. Siamo culturalmente ai margini dell’Unione: come risponde il governo? Con altri tagli.Partiamo da tre dati oggetti forniti dal Dipartimento Educazione e Cultura della Commissione Europea per parlare dell’università, la principale risorsa che un paese ha nell’era della conoscenza e che, in Italia, la maggioranza di governo intende riformare: la spesa universitaria relativa al Pil e per studente.

Primo dato: il nostro paese investe ogni anno nell’università lo 0,90% della ricchezza che produce (Pil). La media dei 27 paesi dell’Unione è di 1,18%. La Germania investe l’1,13%, la Francia l’1,35%, la Gran Bretagna l’1,14%, la Spagna l’1,19%. Tra i più virtuosi: la Svezia investe l’1,73%; la Finlandia l’1,75%. In Europa non c’è un solo paese che investa meno dell’Italia, eccezion fatta per la Grecia (dove tuttavia gli investimenti sono in crescita). Secondo dato: il nostro paese spende per ogni studente universitario 7.127 euro l’anno. La media dell’Unione è di 7.898 euro. La Germania investe 10.288 euro per studente, la Francia 8.809; la Gran Bretagna 9.100; la Spagna 7.570. La Svezia spende 13.681 euro, la Danimarca 11.874, l’Olanda 11.386. Terzo dato: il numero di studenti per docente in Italia è di 21,6, contro una media nell’Europa dei 27 di 15,9. In Germania c’è un docente ogni 12,7 studenti; in Francia 17,8; in Gran Bretagna 17,8; in Spagna 11,7. In Svezia c’è un docente ogni 9 studenti. Decisamente l’università italiana non è uno stipendificio. Dunque non c’è paese in Europa che crede meno dell’Italia nell’università e che destina meno risorse, finanziarie e umane, all’educazione terziaria.

Questa è la condizione al centro del dibattito: come rendere l’Italia un normale paese europeo e portarla con la sua università nell’era della conoscenza. Come risponde il governo Berlusconi a questa sfida? Tagliando gli investimenti. La legge 133 prevede tagli nel quinquennio 2009-2013 per ben 1.441 milioni di euro (la piccola Svezia per il medesimo periodo ha previsto una crescita degli investimenti proprio per 1.500 milioni di euro). La legge 180 ha corretto questi tagli: ma – come scrive Salvatore Settis – solo per pagare gli stipendi mancano all’appello 300 milioni per il 2010 e 500 milioni per il 2011. Tremonti ha ribadito che questi tagli verranno confermati.

Di recente il Ministro Maristella Gelmini ha presentato una legge di riforma dell’università in cui cincischia sul ruolo dei rettori e i compiti del Consiglio di amministrazione e di razionalizzazione della spesa. Ma c’è ben poco da razionalizzare: la spesa semplicemente non c’è. Di numero di università da tagliare (al Sud). Così la smetteremo con l’emigrazione dei cervelli dal Mezzogiorno al Nord: al Sud i cervelli non verranno più prodotti.

Stiamo dunque celebrando la fine dell’università pubblica. Qualche autorevole osservatore rileva come di quei 7.000 euro spesi ogni anno per studente, la quota a carico delle famiglie è solo, in media, di 1.000 euro. Il resto è a carico dello Stato. Occorre aumentare decisamente le rette. Occorre che la spesa per l’università sia a carico delle famiglie. A questo punto tutto torna. L’università pubblica di massa finisce. E l’Italia, unica al mondo, ritorna all’università ottocentesca per soli ricchi.

PIETRO GRECO


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