Unità: Come fare a pezzi la scuola
Meno maestri e meno soldi
di Marina Boscaino
Siamo usciti - alla fine di luglio - da una fatiscente e disastrata scuola del XXI secolo; rientriamo, in settembre, in una fatiscente e disastrata scuola degli anni '60. Con questa consapevolezza, dopo il Consiglio dei Ministri di ieri, dopo le esternazioni di Gelmini al meeting di Rimini, andiamo a vedere come questa donna, fino a tre mesi fa sconosciuta - oggi monopolizzatrice di spazi televisivi e di articoli di giornale - nonostante la sua inadeguata competenza e il suo basso profilo politico continui a tenere accese su di sé le luci di una ribalta che resistono solo perché assecondano alcune pericolose richieste dell'elettorato italiano. Un esempio. Da qualche ora circola sul sito di "Repubblica" un sondaggio: siete favorevoli al ritorno del voto? Ebbene, alle 18 di ieri pomeriggio il 71% dei 6000 votanti era favorevole per tutti gli ordini di scuola; il 12% contrario; il 3% favorevole solo nelle scuole elementari e medie; il 14% solo alle superiori; l'1% non si è espresso.
Ecco un caso veramente indicativo di come vanno le cose nel nostro Paese: "pseudo-notizie" sulla scuola tengono banco, producendo l'effetto di far dimenticare i veri problemi. Parte dell'opinione pubblica interviene a plaudire ad un provvedimento che di sé appare molto meno significativo di altri. Cosa intendo per "pseudo-notizie"? Intendo, ad esempio, che la riabilitazione del voto al posto del giudizio sintetico (distinto, ottimo) rappresenta un risibile tentativo di dare una risposta al complesso problema della valutazione: in uno scontato gioco delle tre carte si sostituiscono i voti ai giudizi. Perché - dalla sostituzione dei voti con i giudizi, che aveva una sua specifica ratio di carattere pedagogico - di fatto i giudizi sintetici si sono trasformati in aggettivi basati su un criterio molto simile a quello numerale. Disturba, semmai, il ritorno ad un numero per valutare un bambino, ad una criterio di giudizio antico; e la disattenzione al dibattito che portò al cambiamento. L'idea non è né originale, né tantomeno rivoluzionaria: si tratta di una trovata ad effetto per assecondare il bisogno di ordine, l'irrinunciabile necessità di certezze sulle minuzie che caratterizza quest'epoca di confusione e distrazione sui grandi temi; e per far segnare un punto nella lista "interventi fatti" in nome di un fasullo efficientismo destinato a spostare di nulla i problemi della scuola.
Come il clamore sul voto di condotta: 5, automatica bocciatura; il voto in condotta fa comunque media. Sarebbe interessante - tra tanto sbandierare di pugni di ferro e provvedimenti demagogicamente repressivi - che il ministro producesse dati sul rapporto tra bullismo e rendimento scolastico: comprendere, cioè, quale sia stata la sorte, didatticamente parlando, dei numerosi bulli assurti alle cronache in questi ultimi anni. Facendo media, il voto in condotta inciderebbe sull'erogazione di credito scolastico, intervenendo sull'esito dell'esame di stato. È in grado, il ministro, di produrre evidenze che certifichino un numero significativo di alunni con rendimento scolastico brillante a fronte di comportamenti esecrabili? O non risulterebbe, piuttosto, uno stretto rapporto tra condizioni sociali e comportamenti, nella maggior parte dei casi? Ha valutato, Gelmini, che al Sud, secondo un recente rapporto della Banca d'Italia, il tasso di abbandoni è del 25% e che la ricetta, suggerita non solo dalla ricerca, ma da molti pedagogisti, è quella di intervenire preventivamente non con la repressione, quanto con la stabilizzazione della relazione educativa, limitando se non eliminando il precariato che si sposta ogni anno in classi e scuole diverse? Solo quella stabilizzazione, infatti, può produrre risultati significativi sul piano del successo formativo e dell'educazione alla cittadinanza. È realistico credere che un problema come il bullismo non incontri un'aggravante nei tagli di organico che ci troveremo di fronte nei prossimi 3 anni; e trovi un deterrente nella clava del 5 in condotta? Se nel bilancio del ministero il 97% del budget disponibile è destinato agli stipendi del personale, perché tagliare automaticamente sul personale - in cui, lo ricordo, rientrano alcune "anomalie", ora positive, ora negative, del sistema italiano: insegnanti di sostegno, di religione cattolica, di comuni montani e isole piccole - e non valutare se il budget è di per sé insufficiente, in una scuola in cui per buona parte la più avanzota tecnologia di comunicazione è tuttora il gesso? Insomma, la nostalgia per i "bei vecchi tempi" e la severità sono il segno demagogico delle rivoluzioni pedagogiche del governo di centro destra. In nome di questi saldi principi, però, si configura l'insidia peggiore, la meno sottolineata, se non dai sindacati: il ritorno al maestro unico dal 2009. Che non vuol dire esclusivamente - come ha affermato Enrico Panini - la riduzione dei 2/3 dell'organico per un totale di circa 250.000 unità. Ma significa anche smantellare un'esperienza, quella del team di insegnanti, che ha connotato in maniera significativa la scuola elementare, segnalandola come la parte della scuola italiana più qualificata, vitale e incisiva per la costruzione dell'emancipazione cognitiva dei bambini.
Il furor iconoclasta anti Sessantotto che compatta la compagine governativa ogni volta che affronta un problema culturale individua in un passatismo talvolta inconcludente, talvolta estremamente pericoloso, la propria arma principale. Il rischio è che - tra grembiulini, rigore indiscriminato, autorevolezza di facciata, autoritarismo controproducente, criteri economicisti - si avvii un'operazione che colpisce la parte più sana di un sistema in grave difficoltà. La vera notizia è questa.