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Unità: Chi controlla l'università

Paolo Prodi

06/02/2007
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l'Unità

Ho scritto sull’Università subito dopo le ultime elezioni, nel maggio del 2006, e pensavo di non ritornare più sul tema: si deve essere molto sobri nel parlare di politica partendo dal proprio mestiere e quindi dalla propria esperienza particolare. Ora poi sono stati scritti e detti centinaia di interventi e appare veramente difficile dire qualcosa di nuovo e di utile. Credo però di avere una responsabilità particolare perché sono forse, ahimé, tra i più antichi dei riformisti avendo cominciato le mie lotte nel sindacato dei professori incaricati negli anni 60 a proposito della riforma universitaria proposta con la Legge Gui, la famosa 2314.
Ed essendo stato, per di più, sempre sconfitto per decenni in tutte le proposte. Lascio al lettore giudicare la graduatoria dei colpevoli: Io, i miei colleghi baroni o il mondo politico, o viceversa, o tutti insieme a pari merito. Devo parlare anche perché fra pochi mesi andrò in pensione: o ora o mai più.
La ragione fondamentale per parlare è però quella che ora manca un'idea di università e la politica, anche quella del centro sinistra, continua procedere a tentoni guardando solo i sintomi più superficiali della malattia: in altre sedi ne ho parlato più distesamente. Qui mi limito a un indice delle proposte che sono emerse negli scorsi decenni e che sono state disattese perché colpivano interessi ben precisi non solo della corporazione ma anche della politica legata al consenso su base territoriale.
1 - Costruzione di due strutture concorrenti per l'istruzione superiore: una, l'università, caratterizzata dalla simbiosi tra didattica e ricerca, e l'altra dedita invece soprattutto alla formazione professionale ( scuole tecniche superiori ecc), caratterizzata dalla prevalenza della didattica, dalla frequenza obbligatoria degli studenti e da un forte legame con le strutture sociali e produttive locali. Tutte le città hanno in vece voluto il "titolo" di città universitarie come titolo nobiliare e le grandi università non hanno resistito alla tentazione bulemica di mangiare tutto e di ingrandirsi a dismisura per avere posti e quattrini.
2 - Programmazione degli istituti superiori di istruzione a livello regionale con una conferenza permanente dei rettori e delle istituzioni politiche e sociali del territorio della Regione ( qui esiste addirittura da decenni una legge, mai applicata e di cui si tace soltanto). Ricordo uno studio fatto insieme con il CENSIS per la Sardegna negli anni ’70, gli studi preliminari per la fondazione dell'università di Arcavacata in Calabria.
3 - Autonomia delle sedi universitarie basata su una reale concorrenza, con l'intervento di una magistratura scientifica a livello nazionale soltanto come valutazione ex post dei risultati ottenuti nella ricerca e nella formazione dai singoli atenei. Ciò avrebbe supposto naturalmente anche l'abolizione del falso problema del valore legale del titolo di studio e avrebbe ostacolato ( qualsiasi fosse la forma dei concorsi prescelta) i comportamenti scorretti che si sono moltiplicati negli ultimi tempi ( nomine di allievi somari o di familiari). Ciò spinge però a sottolineare molto fortemente che la proposta attuale di un'authority senza un mutamento radicale di tutta la struttura esistente non servirebbe a nulla e complicherebbe il quadro.
4 - Definizione delle responsabilità precise all'interno dei singoli Atenei con l'abolizione delle facoltà ( che possono rimanere come federazioni per affrontare problemi comuni, come tanti secoli fa) e la coincidenza/fusione tra corsi di laurea e dipartimenti in un'unica struttura portante. Ora nessuno è veramente responsabile di nulla in un rimpallo di decisioni e di verbali in cui prevalgono necessariamente logiche clientelari. Con Beniamino Andreatta avevamo previsto per Arcavacata una struttura in 16 dipartimenti sovrani del tutto diversa da quella di tutte le altre università.
5 - Creazione di corsi di diploma professionalizzanti in parallelo e non in serie rispetto ai corsi di laurea ( il pensiero va in ricordo del ministro Antonio Ruberti le cui intelligenti proposte furono deformate immediatamente) : l'intelligenza minima suggerisce che il greco o l'analisi matematica debbono essere affrontate al primo anno o non si imparano più, ma si è preferito andare in senso inverso con il 3+2 dichiarando che bisognava scimmiottare un'Europa immaginaria. Naturalmente i diplomi dovrebbero nascere da convenzioni tra l'università, le scuole superiori tecniche e le istituzioni locali in funzione del mercato del lavoro.
6 - Creare canali di passaggio dei docenti/ricercatori tra università, altri istituti di istruzione superiore, centri di ricerca, scuole medie superiori, biblioteche archivi ecc in modo da garantire nello stesso tempo la stabilità di cui ogni uomo ha bisogno e la selezione di cui vive la ricerca. Un tempo un assistente che non produceva scientificamente dopo tot anni passava al liceo e molti professori di liceo, splendidi intellettuali, venivano chiamati in università. Le chiacchiere tra i cubi e le piramidi di personale che si fanno anche in questi giorni sono senza senso.
Naturalmente questi sono soltanto alcuni punti principali. Possono essere esplicitati tanti altri punti non certo secondari, come la proposta di corsi di terzo livello ( di dottorati di ricerca) consorziati fra varie università, un tempo esistenti con la partecipazione di più sedi universitarie, poi massacrati e ridotti all'interno di ogni singolo ateneo, ora rinascenti a volte sotto spoglie ambigue come centri di eccellenza staccati dalla rete universitaria.
Mi si dice che queste sono riforme impossibili e che bisogna fare un passo alla volta. Che sia necessario fare un passo alla volta è vero, ma la direzione deve essere ancora più definita e chiara in questo caso e sono convinto che senza affrontare questi nodi di base il nostro sistema universitario non possa sopravvivere . O la politica democratica riprende il sopravvento ed è capace di rifondare le regole oppure il sistema collasserà inevitabilmente verso privatizzazioni perverse o rigurgiti di corporativismo di un corpo docente sempre più povero e demotivato. Dei poveri più poveri che sono i precari, sui quali ormai si basa la vita quotidiana degli atenei, ma anche nel senso che la figura del docente universitario ha perso il ruolo sociale e la retribuzione economica di un tempo (solo qualche decennio fa eravamo considerati al livello di prefetti e ambasciatori…). Se è vero che il paese deve investire al massimo nella ricerca e nella formazione occorre che in primo luogo si chiudano i buchi del secchio se si vuole che l'acqua del denaro e dell'intelligenza non fuoriesca prima di produrre qualcosa (i cervelli all’estero sono un minimo rivolo di ciò che si perde). Anche la riforma dei concorsi è necessaria ed urgente ma da sola non basta affatto.
Da storico posso soltanto dire che l'università nella sua storia millenaria ha avuto diverse vite e che è anche morta più volte (checché ne dicano le retoriche celebrazioni delle fondazioni secolari). Basta pensare alla decadenza delle università italiane nel corso del Cinquecento e del Seicento: allora nacquero fuori delle università ( in preda del potere politico e del nepotismo sfrenato) le accademie e le società scientifiche. Ora qualcosa d'altro nascerà ma non sappiamo quali saranno i nuovi padroni e se agiranno nell’interesse del paese. La libertà costituisce l'anima e l'identità dell'università occidentale: è questa che stiamo perdendo.


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