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Unità-Che fai se un giorno tuo figlio ti chiede"Papà, ma noi siamo una famiglia povera?"

Che fai se un giorno tuo figlio ti chiede "Papà, ma noi siamo una famiglia povera?" Fabio Luppino Come rispondere alla domanda di un bambino, papà, siamo poveri? Cosa pensare quando, pr...

20/11/2004
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l'Unità

Che fai se un giorno tuo figlio ti chiede
"Papà, ma noi siamo una famiglia povera?"

Fabio Luppino

Come rispondere alla domanda di un bambino, papà, siamo poveri? Cosa pensare quando, proprio ora, questa domanda ritorna tra gli intermezzi di un dialogo? Eppure. Non parlo quasi mai di soldi. In casa si fa quel che si deve fare, senza esagerare. Si dà quel che si può dare. Si dicono dei sì e dei no. Non si dice, siamo poveri non si può. Eppure. Sono due milioni i bambini poveri in Italia, secondo l'indagine Eurispes-Telefono azzurro. Non sono eccezioni. Sono disagi invisibili, diffusi, nelle pieghe, ormai, di molte famiglie. I bambini ci guardano, si parlano. Giocano, sorridono. Ma sentono. I tg e i giornali che facciamo, di questi tempi, farebbero notizia se riportassero una buona notizia.
Mio figlio, cinque anni, camminiamo. Poi, all'improvviso, si ferma, mi guarda, inarca le sopracciglia, apre meglio i suoi occhi e dice: "Ma mamma è povera?". "No - rispondo - abbiamo tutto in comune. Ha un lavoro, io ho un lavoro...". Epperò, nel 2000 il lavoro l'ho perso. Il più grande, 8 anni (allora ne aveva 4), qualche domanda se la faceva e se la fa, tuttora. La mamma si preparava al concorso a cattedre (il secondo, ma insegnava da 13 anni), tra una poppata e l'altra: i corsi del Cidi a Trastevere, l'esame, lo scritto, l'orale, l'attesa della graduatoria. L'ingresso in ruolo, la relativa pace, ma quanta fatica! E i bambini guardano, osservano, fanno il tifo. Ma poi il film della vita gli ritorna. C'è il bello e il meno bello. Il papà che perde il lavoro, che lo ritrova. Che, improvvisamente, torna a casa per cena, una festa. Che poi si interroga sul futuro a 37 anni, due figli. Il giornale riapre, speri di essere chiamato. Sei chiamato. A cena non torni più. Li trovi che dormono, la sera, forse, più tranquilli.
Malgrado tutto sei un privilegiato. Glielo dici, loro lo capiscono. Eppure. La scuola è maestra di vita. I compagni di classe, i giochi, non sono un'isola felice. Annusano, incassano ansiosi la vita altrui. La maestra se è nervosa, tu se ad una richiesta ti fai trovare pensieroso, preoccupato. Vedono figli di separati, madri sempre di corsa, inquietudine, travagli. Perché? Ascoltano i tuoi discorsi, le alterne vicende della famiglia allargata. I bambini sono in ansia, noi tentiamo di placarla. A volte, non siamo all'altezza. E allora le domande ritornano.
Il segno dei tempi. Trentacinque anni fa avevo io cinque anni. Madre sarta, padre operaio. La prima sempre di corsa per le consegne di abiti rifinitissimi per la figlia o la moglie di questo o quel ministro, pagati due lire e spesso solo due volte l'anno. Mio padre, e chi lo vedeva, a fare i turni per guadagnare di più. Poi, più tardi, lo stesso, sempre a lavorare. Giocavo troppo a pallone per strada e le Mecap non duravano più di una settimana. Me le tenevo bucate. Ma non lo facevo perché pensavo che fossimo in una situazione difficile. Ero fatto così. A cinque anni pensavo solo che le porte del mondo mi si stessero aprendo. E che un giorno vi sarei entrato, preso per mano da mio padre, dalla porta principale. C'era speranza. E ora?

vedi alla voce paura


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