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Unità: Che c’azzecca Neruda?

Il dibattito al Senato

25/01/2008
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l'Unità

Roberto Cotroneo

I “pianisti”, gli stenografi che al Senato come alla Camera sono incaricati di trascrivere ogni parola che viene detta in aula, dovrebbero saperlo che stanno mettendo su pagina il miglior teatro dell’assurdo, dalla «Cantatrice calva» di Ionesco a oggi. Peccato che, dopo anni di becerate berlusconiche, l’italiano medio può aver dimenticato chi sia mai stato Eugene Ionesco, e cosa sia mai il teatro dell’assurdo. Ma per farsene un’idea ci voleva poco.
Bastava guardare quel palcoscenico che era l'aula del Senato per avere chiaro cosa stesse accadendo. Il totale «non senso» di una parte della classe politica senza un benché minimo senso di responsabilità. Ma anche senza il benché minimo senso del ridicolo.
Ora tralasciamo la scenata agghiacciante del senatore dell'Udeur Barbato, trattenuto dai commessi a stento, che si saranno anche dovuti pulire il palmo della mano dallo sputo trattenuto del Barbato. Pazienza e solidarietà per il povero Cusumano che sviene sullo scranno, con richiesta urgente di defibrillatore.
Ma dopo tutto questo ci siamo dovuti sorbire Clemente Mastella che anziché parlare cosa fa? Tira fuori un foglietto con una poesia di Neruda, tradotta naturalmente, mica in originale. Neruda, dico. E, come avrebbe detto Antonio Di Pietro, che con Mastella ha un conto apertissimo da sempre: «che ci azzecca Neruda con Mastella?». Niente, infatti la citazione gli esce male. Legge malissimo la poesia, anzi dà l'impressione che qualcuno gliela deve aver girata questa mattina, all'ultimo momento. «Questa va bene, Clemente, fa il suo effetto». E lui, gongolante a sciorinare i versi, come se finalmente tutta quella inconsistenza e volgarità, tutto quel mastellismo, che ha espresso tra corna e sputi pochi minuti prima, e al meglio, il suo sodale Barbato, potesse scivolare via come lo sporco più sporco dei detersivi per cucina, che lucidano, brillano, non graffiano le superfici e non lasciano residui.
Legge i versi maldestro, Pablo Mastella; maldestro perché non gli appartengono, come non gli appartiene Neruda. «Lentamente muore chi diventa schiavo dell'abitudine, ripetendo ogni giorno gli stessi percorsi, chi non cambia la marcia, chi non rischia e cambia colore dei vestiti, chi non parla a chi non conosce»: mai versi furono così profetici.
Non è una delle migliore poesie di Neruda, che non è neanche un grande poeta, e se proprio si voleva impressionare con la cultura c'è di meglio in giro. Soprattutto grandi poeti italiani del Novecento, che non c'è neppure bisogno di tradurre. Ma si sa, Pablo Mastella vuole farci capire che il suo è un travaglio esistenziale e vitalistico. Persino situazionista, per certi aspetti. La legge tutta la poesia, dopo gli sputi e le grida, dopo le ironie e le parole a vuoto, in quel clima senza futuro e senza il benché minimo senso di reponsabilità. La legge tutta tranne l'ultimo verso: quello, qualcuno, glielo ha depennato, non andava tanto bene. Lentamente si muore se non si cambia, lentamente si muore se si tiene troppo Prodi, lentamente si muore se ci si ostina a fare il ministro della Giustizia, ma poi Mastella dimentica di leggere: «Soltanto l'ardente pazienza porterà al raggiungimento di una splendida felicità».
Forse Mastella ha ritenuto che di ardente c'erano solo le grida del suo collega di Udeur Barbato, e dunque non era il caso di tirar fuori la pazienza. Con il senatore Turigliatto che dichiara di non votare per il governo con l'aria di uno che sembra non non capire dove si trova davvero, e perché e dall'inizio della legislatura. Con il senatore D'Onofrio che ancora un po' tira fuori un mazzo di tarocchi: «Il senatore Cossiga sostiene che quello che io dico si verifica poi puntualmente. E dunque siccome penso che il governo cadrà. Vuol dire che a voi, presidente Prodi, le cose andranno male». E Roberto Castelli, leghista padano, pronto a trasformarsi in storico, esibendo un quiz di cattivo gusto. Indovinate quale di queste frasi è stata pronunciata da Benito Mussolini nel celebre e drammatico discorso del Teatro Lirico di Milano nel 1944, e quali invece sono state pronunciate da Romano Prodi. Agghiacciante per per scarso rispetto delle istituzioni e per ignoranza storica. Ma non è che si può pretendere molto da Castelli, e anche questo si sa. Ma appena si ha la coda si paglia, appena si sente il profumo del potere che mette tutti d'accordo, subito, si salta sul carro di una «porcata» di legge elettorale per riprendersi quello che viene considerato un maltolto. E siccome «pare brutto» come dicono a Roma, metterla giù facile facile, smaccata più di quanto non sia, sono tutti pronti a mettere mano alla cultura, o si fa per dire. A riferimenti storici raffazzonati, a parallelismi vergognosi, e a Pablo Neruda. Citato da Mastella.
Lo spettacolo era tra i peggiori che si potessero immaginare. Più che ridicolo era grottesco, un grand guignol istruttivo e totalmente in cattiva fede. Facce di bronzo come mai se ne erano viste così. Avrebbero tutti preferito non sfilare a dire no, mettendoci la faccia; per primo Mastella, per secondo Lamberto Dini. L'hanno dovuto fare. Ma quel Neruda è quasi più insultante degli insulti di Barbato: «Lentamente muore chi non capovolge il tavolo, chi è infelice sul lavoro, chi non rischia la certezza per l'incertezza, per inseguire un sogno, chi non si permette almeno una volta nella vita di fuggire ai consigli sensati».
Neanche troppo lentamente, andando avanti così, muore un paese. Riguardo a Mastella, ci sembrava stesse benissimo, per fortuna, nonostante avesse fatto sapere di un lieve malore nella mattinata. Però Clemente Mastella che legge e male il comunista Neruda è una cosa che non si vorrebbe vedere e sentire mai più. Per favore...
roberto@robertocotroneo.it


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