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Unità-C'era una volta l'Università italiana

C'era una volta l'Università italiana Luigi Cancrini Luca Marchina Tutto inizia nel giugno del 2004 quando mi laureo nella triennale in relazioni internazionali e diritti umani dell'Univ...

17/10/2005
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l'Unità

C'era una volta l'Università italiana

Luigi Cancrini
Luca Marchina

Tutto inizia nel giugno del 2004 quando mi laureo nella triennale in relazioni internazionali e diritti umani dell'Università di Padova (facoltà di Scienze Politiche), mi iscrivo a settembre alla relativa specialistica e in un anno riesco a fare i 22 esami e il tirocinio previsti. A giugno, questa volta del 2005, inizio ad informarmi per la sessione di laurea: chiedo alla presidenza della mia facoltà e poi in segreteria se posso laurearmi in anticipo e la risposta che ogni volta ricevo è la medesima: "Certo non preoccuparti, è lo spirito della riforma!". Io termino la tesi e faccio la domanda di laurea per la sessione di settembre (che è posticipata ad ottobre).
Vado a consegnare tutte le carte ma non riesco a completare il questionario obbligatorio "Almalaurea" con il quale lo studente fornisce informazioni e una specie di curriculum a questo portale nazionale che raccoglie i questionari e li trasmette alle imprese interessate. In un primo tempo mi viene detto che non è importante, di riprovare perché probabilmente ho fatto qualche errore. Almalaurea mi rifiuta l'accesso e la risposta a video è sempre la stessa: "Studente iscritto al primo anno". Dopo molti vani tentativi vengo mandato in un altro ufficio della segreteria dove finalmente è risolto il dilemma. L'efficiente segretaria scopre che nel regolamento della facoltà di Scienze Politiche è previsto un massimo di 90 crediti formativi l'anno (io ne ho fatti 120) anche se è possibile laurearsi in anticipo. La segretaria mi dice: "Mi dispiace, la prossima volta se la prenda con più calma!". Possibile che ciò che m'impedisce di laurearmi sia il questionario di Almalaurea, come è possibile che nessun altro se ne sia accorto?
La storia da lei raccontata propone molti spunti di riflessione su quello che sta accadendo nell'Università e nel nostro paese. In tema di efficacia reale dei tentativi di ammodernamento dell'amministrazione e delle sue strutture da una parte; in tema di rapporto fra i servizi resi a livello pubblico e a livello privato, in secondo luogo, all'interno di una società sempre più Europea e sempre più incline a garantire, nei fatti, livelli di libera concorrenza che coinvolgono, apertamente e senza discussione, il servizio pubblico.
C'era una volta l'Università statale, quella cui mi sono iscritto anch'io quasi cinquantanni fa. Era una struttura egemone dal punto di vista dei riferimenti culturali, carica di storia e di prestigio. Entrarvi, frequentarla, uscirne con una laurea era insieme un privilegio (il "dottore" dei film di Sordi) e un passaporto valido per il mondo del lavoro più qualificato. Lo stato d'animo dello studente di fronte all'istituzione nel suo complesso e ai professori che la rappresentavano era basato essenzialmente sul rispetto e sulla consapevolezza della propria posizione subordinata. Dando luogo ad una situazione in cui gli abusi, che pure c'erano, erano tollerati e giustificati, almeno in parte, dallo spessore che chi comandava aveva comunque, dalla forza e dalla significatività dei processi, formali e informali, di selezione del gruppo dirigente. Ad un livello, qualunque cosa se ne pensi, infinitivamente più alto di quello attuale.
C'era una volta l'Università, dicevo, perché l'Università è finita con il '68 quando il mutare delle condizioni sociali, economiche e politiche la trasformò in università di massa. Aprendone l'accesso e abbassando progressivamente il livello delle cose che essa era in grado di dare. Mettendo in moto un processo di spostamento ad anni successivi all'Università , in spazi esterni all'Università delle occasioni reali d'insegnamento e di apprendimento. Trasformando la laurea in un pezzo di carta che permette, a chi può, l'accesso a tali occasioni.
Si diventa medici competenti, avvocati capaci, ingegneri o veri ricercatori negli studi professionali e nell'ambito delle attività di specializzazione, non all'interno dei corsi universitari. Spostata in avanti, la competizione per la professione e la carriera è sostanzialmente riservata a quelli che possono permetterselo, che non hanno bisogno di guadagnare presto, che hanno appoggi più o meno importanti alle spalle. Svuotando l'Università del significato che aveva avuto fino ad allora.
Sto, ovviamente, semplificando molto perché le eccezioni ci sono state e ci sono, soprattutto nell'ambito delle facoltà scientifiche ma credo di non essere lontano dal vero dicendo che il corpo insegnante delle Università storicamente più accreditate, considerato nel suo complesso, ha reagito malissimo a questo cambiamento. Se ne è sentito insieme umiliato ed offeso ed ha sostanzialmente rifiutato di accettare quello che sentiva come un declassamento. Rifiutando insieme di adeguare le sue strategie di lavoro alla nuova realtà costituita da una università di massa e di lasciare il posto ad altri. Mettendo in piedi, nel tempo, una complessa struttura autoreferenziale, basata sull'esercizio di un potere pressoché assoluto nell'ambito delle gerarchie (l'episodio più recente è quello del figlio di un potente preside di facoltà che va in cattedra a 29 anni) ma anche, nello stesso tempo, sulla constatazione tragica del fatto che quel potere serve a poco, non è riconosciuto ne stimato all'esterno, non è in grado di farsi valere nel mondo reale delle professioni e della ricerca.
È su questo edificio in crisi profonda che sono cadute, come due tegole, la riduzione della spesa pubblica che ha reso sempre più inadeguato un budget che si regge sempre di più sulle tasse e sulle tasche degli studenti e i tentativi di innovare dal punto di vista organizzativo ed amministrativo.
Con effetti paradossali del tipo di quelli che lei denuncia perché i rinnovamenti si producono su sollecitazioni che vengono dal centro (ministero e parlamento) subite da chi nell'Università lavora.
Detto nel modo più semplice, in moltissime facoltà oggi, soprattutto in quelle più facili, più confuse e più frequentate, tutto quello che viene fatto di nuovo viene fatto senza partecipazione e senza amore da persone che si sentono sempre più escluse dai processi decisionali che li coinvolgono. Gettati sempre di più, con il proliferare delle private istituite ormai dappertutto, su un mercato in cui nessuna di loro ha voglia di essere competitiva se la competizione viene fatta (come oggi Berlusconi e la Moratti in effetti chiedono o pretendono) sulle economie rese possibili dal numero degli iscritti.
A questo siamo. Con grande tristezza sapendo che tempi migliori, se verranno, non sono per niente vicini. Ci vuole molto poco infatti a fare danni mentre costruire o ricostruire è sempre molto più difficile.


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