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Unità: C’è la crisi, ammortizzatori sociali solo per pochi

Ci vorrebbe almeno il doppio se non il triplo», commenta Fulvio Fammoni che per la segreteria Cgil si occupa del mercato del lavoro

21/12/2008
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l'Unità

Il governo modifica, in sordina, i meccanismi di accesso agli ammortizzatori sociali nelle piccole imprese. Prima deve pagare l’azienda, se non lo fa, anche lo Stato non paga. Con buona pace dei lavoratori. Ammortizzatori sociali per pochi e molto lentamente. In modo strisciante, senza darlo a vedere, il governo sta riformando gli strumenti a sostegno di chi perde il lavoro o è costretto a interromperlo. È una riforma al ribasso. Lontanissima, per quantità e meccanismi, da quella che ci vorrebbe per fronteggiare la crisi che ha già mandato a casa centinaia di migliaia di lavoratori e - dicono i centri studi, a cominciare da Confindustria - continuerà a farlo per tutto il 2009 a ritmo incalzante.

Le risorse innanzitutto. Tra la Finanziaria slim appena approvata, e il decreto anticrisi che va approvato entro gennaio, il governo ha stanziato circa 1 miliardo di euro. Sembra tanto, non lo è. «Ci vorrebbe almeno il doppio se non il triplo», commenta Fulvio Fammoni che per la segreteria Cgil si occupa del mercato del lavoro. Irrisorietà condivisa dalle altre sigle, dalle imprese e dalle forze politiche di opposizione. Dopo aver sottovalutato il problema per settimane, il governo sembra essersi ravvisato e ha ammesso che ci vogliono più soldi. Ha in mente di usare i fondi strutturali europei. «Bene - continua Fammoni -. Ma ci vorranno mesi, perché è necessaria una trattativa con Bruxelles per cambiare la destinazione d’uso di quei fondi. Nel frattempo i lavoratori che perdono il posto con cosa vivranno?». E questo è un primo problema.

Il secondo riguarda le «trappole» seminate nel decreto con cui molti lavoratori saranno chiamati a fare i conti. Il provvedimento introduce un meccanismo valido per tutte le imprese sotto i 15 dipendenti, quelle che ricorrono alla cassa integrazione in deroga. Prima di potervi accedere dovranno passare per un’altra fase (per massimo 90 giorni) in cui se l’azienda (in crisi) non corrisponde al lavoratore il 20% della retribuzione, l’interessato non potrà ottenere il 60% del salario che lo Stato gli deve come indennità di disoccupazione. «Si rovesciano le cose - denuncia Fammoni -. Il diritto va garantito con un intervento pubblico, poi integrato dal privato. Con le nuove norme, se non c’è il privato non c’è neanche il pubblico». Non è poco. Tanto più che le norme coprono fino al 2012: «È chiaro che si ha in mente un sistema a regime». Il secondo problema è che il decreto prevede tassativamente che il 20% della retribuzione deve essere corrisposto dagli enti bilaterali, cioè da organismi composti da lavoratori e imprese. «Cosa succede se un’azienda non aderisce agli enti bilaterali? I suoi lavoratori non avranno l’integrazione? E se l’ente c’è ma si è dato uno scopo diverso da questo?».

Per Fulvio Fammoni tutto questo si traduce «in una evidente disparità di trattamento tra lavoratori, una discriminazione che - afferma - ritengo sia incostituzionale, stiamo acquisendo pareri in proposito». Anche perché «si crea un obbligo a creare gli enti bilaterali, mentre oggi è una scelta autonoma che le parti assumono con la contrattazione».

Dolente la nota dei precari. Se perdono - e sono già migliaia - il lavoro nel 2008 non avranno ammortizzatori. Ci saranno dal 2009. Ma non per i collaboratori. Qualche eccezione è prevista per i contratti a termine ma qui, spiega Fammoni, le aziende preferiscono ricorrere alla rescissione anticipata del contratto. «E rivolgersi al giudice può risultare inutile. La crisi è una causa oggettiva e il lavoratore può perdere la causa».

FELICIA MASOCCO

ROMA

fmasocco@unita.


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