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Unità: Berlinguer: per ogni scuola un laboratorio dove «fare» scienza

L’ex ministro dell’Istruzione lancia un paio di proposte per diffondere la cultura scientifica e per aiutare il nostro Paese a tenere il passo degli altri

06/03/2008
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l'Unità

di Pietro Greco

Loro, i ragazzi premiati ieri a Roma nella sede centrale del Cnr da Romano Prodi e da Giuseppe Fioroni perché vincitori delle Olimpiadi internazionali di scienza, sono la prova provata che l’Italia sa ancora produrre punte elevatissime di eccellenza. Ma le cifre che ha snocciolato Luigi Berlinguer, presidente del Gruppo di lavoro per lo sviluppo della cultura scientifica e tecnologica, aprendo i lavori dell’affollatissimo convegno «Scienza è cultura» da lui stesso organizzato, sono lì a dimostrarci che nell’era della conoscenza il nostro paese stenta a tenere il passo degli altri. Produce meno scienza. Ed educa meno degli altri alla scienza.
Le statistiche internazionali dicono, infatti, che il nostro paese investe di meno in ricerca scientifica e ha meno ricercatori. Le indagini PISA dicono che i ragazzi che frequentano le scuole medie sanno meno scienza della gran parte dei loro giovani colleghi, in Europa e fuori dall’Europa. Tutto ciò ha effetti concreti. Non solo sull’economia del paese: che cresce meno degli altri (per il suo modello di sviluppo senza ricerca) e offre stipendi inferiori a quello degli altri paesi (a causa della minore qualificazione richiesta). Ma la scarsa penetrazione della scienza nella società italiana ha riflessi tangibili anche fuori della sfera economica: attacca, come ha detto il ministro dell’Istruzione Giuseppe Fioroni, la qualità della cittadinanza nell’era in cui la nuova conoscenza informa di sé tutta la nostra vita.
Che fare? È questa il tema su cui da due anni si cimenta il Gruppo interministeriale presieduto da Luigi Berlinguer. La risposta individuata è: «continuare a martellare» sul concetto che la scienza è cultura. Anzi, è la forma di cultura che più di ogni altra negli ultimi secoli ha prodotto nuova conoscenza e più di ogni altra incide nella nostra vita, in ogni e ciascuna sua dimensione: intellettuale, etica, economica e sociale.
La prima e la principale delle proposte avanzate dal Gruppo Berlinguer è stata quella di aumentare il tasso di cultura scientifica nelle scuole, iniziando col dotarle - tutte e ciascuna - di un laboratorio dove «fare» scienza e non solo apprenderla dai manuali. L’idea è stata fatta propria dal ministro Fioroni, che l’ha finanziata con 45 milioni.
Ma la scuola è uno dei due pilastri su cui regge la diffusione della cultura scientifica. L’altro pilastro è il mondo fuori della scuola. È nella società, nelle sue diverse articolazioni, che la cultura scientifica deve percolare. A questo proposito potrebbe dare un contributo importante la stessa università, se attribuisce a se stessa - come avviene in altri paesi - una terza missione: la diffusione dei saperi, oltre le due canoniche della ricerca e dell’educazione. Se vogliamo che l’affermazione «la scienza è cultura» diventi una priorità praticata e non solo predicata, se vogliamo avere lo stesso numero di ricercatori e scienziati degli altri, occorrono azioni concrete che incidano nel sistema produttivo. Romano Prodi ne ha indicate alcune, in parte realizzate dal suo governo: incentivare le imprese che producono innovazione, ma anche incentivare con aiuti economici specifici gli studenti che frequentano i corsi scientifici. In realtà, ha sostenuto Prodi, occorre anche che le imprese premino chi ha un’elevata qualificazione della scienza.
Il che rimanda difilato al cuore del problema: la specializzazione produttiva del sistema italiano delle imprese. Che non ha una vocazione per la produzione di beni hi tech, ad alta intensità di conoscenza. Per questo è interessante quanto ha sostenuto Gianfelice Rocca, vicepresidente di Confindustria. Il sistema delle imprese manifatturiere italiane non può seguire il modello ormai generale delle economie avanzate, centrato sulla produzione di alta tecnologia. Deve perseguire il modello dell’«altra innovazione», che punta sulla qualità, anche estetica, del prodotto. E deve puntare su una maggiore flessibilità del lavoro.
Eccoci, dunque, alla domanda cruciale. Quale modello economico deve seguire l’Italia: quello fondato sull’alta intensità di ricerca e la produzione di beni ad alta tecnologia o sull’«altra innovazione»? Un bel tema da discutere in campagna elettorale.


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