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Unità-Auschwitz il nostro Orrore

Auschwitz il nostro Orrore Gianni Marsilli DALL'INVIATO AUSCHWITZ "&E poi, ogni tanto, arriva qui "some very special people", gente un po' particolare". Esita un momento, la nostra gui...

27/01/2005
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l'Unità

Auschwitz il nostro Orrore

Gianni Marsilli

DALL'INVIATO AUSCHWITZ "&E poi, ogni tanto, arriva qui "some very special people", gente un po' particolare". Esita un momento, la nostra guida. Come se non volesse aprire un capitolo imbarazzante, delicato. Ma continua: "Sono quelli che non ci credono. Non credono che lo sterminio ci sia stato". Negazionisti, insomma. Ma non intellettuali, non topi di biblioteca con l'ossessione di riscrivere la storia. No, visitatori normali.
Lucas, la guida, si ricorda di un autista di bus londinese, di un commerciante svizzero. Gente così, all'inizio chiacchierona e con l'aria di saperla lunga: "No, spesso non direi, ma un paio di volte l'anno mi capita qualcuno del genere. Cosa dicono? Mah, direi che si dividono in due categorie. Quelli che pensano che tutto ciò sia stato messo in piedi per farne un richiamo turistico, una specie di Disneyland della seconda guerra. Non credono a nulla, per loro tutto ciò è artificiale, falso. Altri invece ammettono che ci sia stato un campo di prigionia, magari anche duro, ma che si sia esagerato nella ricostruzione della storia. I forni crematori? Una necessità pratica, quasi una misura d'igiene. Ci si capisce al volo, quando arrivano. Due battute, una frase e da quel momento non si comunica più. Si mescolano agli altri con lo sguardo scettico, le mani dietro la schiena. Ascoltano silenziosamente irridenti". Siamo ad Auschwitz 1, tra l'edificio in mattoni rossi numero 10 e quello numero 11. In mezzo, il muro dei fucilati. Almeno fino al '42, quando i nazisti decisero che lo Zyklon B costava meno delle pallottole. In attesa del gas provvidenziale, si è calcolato che circa 20mila persone siano state giustiziate in questa specie di cortile, dove si affaccia quella che era "la prigione" nella prigione chiamata Auschwitz, la baracca 11: soprattutto prigionieri russi, resistenti polacchi. Per gli ebrei non c'era bisogno di processo. Nello stanzone all'ingresso a sinistra sedeva la corte, con tanto di giudice (Lucas assicura che vive ancora, che ha 98 anni, che era un fine giurista già negli anni '30, che si chiama Timmler, che non è mai stato disturbato) che sparava sentenze a raffica. A fianco gli spogliatoi dei condannati, rimasti intatti, e la porticina dalla quale si accedeva al cortile, due passi e si era faccia al muro, pratico e rapido. Sotto, le celle per torturare, i gabbiotti per punire: in piedi per giorni, senz'aria né cibo né acqua. A due passi, la baracca che ospitava il dottor Carl Clauberg, ginecologo. Sperimentava metodi di sterilizzazione femminile. Aveva anche uno studio a una 50 km da qui, nella zona c'è ancora chi se lo ricorda. Ad Auschwitz operava con il dottor Mengele, al quale qualche centinaio di bambini deve la vita: erano gemelli, e Mengele li voleva per le sue alchimie di laboratorio. Tanto peggio per gli altri 200mila, passati per il camino. Oggi ad Auschwitz nevica, i passi dei pochi visitatori non si sentono, il campo si stacca netto in tutti i suoi dettagli dal biancore silente nel quale è immerso. Non occorre chiudere gli occhi per immaginare.
***
Non credono, quei pochi che Lucas individua subito, neanche davanti alle due tonnellate di capelli ancora lì, esposti in una vetrina che corre per trenta interminabili metri, e neanche davanti ai tappeti lunghi e stretti che i tedeschi ne ricavavano. Lavabili e resistenti, pare. Non credono neanche davanti alla montagna di scarpe - scarponi, aperte eleganti col tacco, sandali, scarpine per bambini. Non credono neanche davanti al cumulo di valigie con le quali in tanti erano venuti, quasi tutti ebrei, convinti della provvisorietà di quel viaggio. Duemila e passa chilometri per arrivare ad Auschwitz, scendere sulla rampa ormai famosa, passare la selezione e, se scartati dall'abilità al lavoro, andare dritti nelle docce dove invece dell'acqua veniva fuori lo Ziklon B e poi da lì nel forno crematorio. Come Hana Klaubauf, il cui nome qualcuno aveva scritto sulla valigia assieme alla data di nascita: 13 dicembre 1941. Non credono neanche davanti ai contenitori di Ziklon B: cinque marchi l'uno costavano, era un gas a poco prezzo. Tanto che negli angoli delle docce, lì dove ne arrivava solo qualche frammento, c'era un sacco gente che non moriva subito. Non credono. E chissà, magari hanno un fremito di disappunto davanti al patibolo di Rudolph Hoess, il comandante del campo, che qui fu impiccato il 7 aprile del '47 dopo esser stato processato a Varsavia da un tribunale polacco (non a Norimberga da una corte internazionale, quindi come se i suoi crimini fossero stati consumati solo contro il popolo polacco), magari vorrebbero fare come quelle mani ignote che per anni qui deposero dei fiori in sua memoria, tutto attorno alla corda alla quale finì appeso. Hoess viveva con la famiglia in una bella casa un po' più in là, dietro il filo spinato elettrificato. A fianco del patibolo, il primo edificio che fu adibito alla gasificazione collettiva: ci stavano fino a settecento, nudi in quella stanza con quattro aperture nel soffitto per infilarci il gas. Poi finivano subito nei forni attinenti, che però ne cremavano non più di trecento al giorno. Per questo, dopo Wannsee, fu necessario costruirne di più larghi e potenti, a tre chilometri da lì: Auschwitz Birkenau.
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Cielo di piombo, neve a perdita d'occhio. L'occhio si perde guardando l'immensità del campo di Auschwitz Birkenau. Tutto si perde, guardando Auschwitz Birkenau. Si perde il senso del tempo, perché quei binari che portano laggiù verso quel filare di pioppi sono gli stessi che hai visto in tante fotografie. Si perde l'ultimo senso del decoro, davanti a tutti quei buglioli uno accanto all'altro nella baracca di legno, una delle mille, dove si aveva accesso due volte al giorno per i bisogni anche di duemila persone, e ti viene in mente l'estate di questa pianura schiacciata dal sole, la merda, le mosche, i tafani, e infatti ne morirono a decine di migliaia di tifo e dissenteria. Si perde il senso di ogni ragione, nell'efferata scientificità del tutto. Lucas, che è una guida eccellente - la giusta rispettosa distanza dal dolore di tanti, la giusta conoscenza tecnica, i giusti silenzi - spiega senza dovizia di particolari ma individuando i nodi strategici. Auschwitz che comincia come campo per prigionieri russi, che s'ingrandisce fino a 40 chilometri quadrati, che può isolarsi facilmente essendo in un triangolo tra due fiumi, che è un punto di convergenza per portarci gli ebrei da tutta Europa, stessa distanza da Oslo e da Salonicco, da Varsavia e da Vienna, che diventa il luogo scelto per compiere l'inimmaginabile: eliminare dalla faccia della terra gli ebrei e i gitani, gli unici qui uccisi in quanto tali, per pura scelta razzista. Ma quelli, quei pochi che capitano ogni tanto, non ci credono. E altri - più numerosi e rappresentativi: all'Onu, in Gran Bretagna, anche in Italia - ne rifiutano l'unicità storica, il martirio programmato. E altri ancora, come Domenico Gramazio, assolvono i complici politici di Himmler e Eichmann.
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Circa mezzo milione di persone all'anno viene in visita ad Auschwitz. I più numerosi sono i polacchi: fu qui che si compì il sacrificio di Maximilian Kolbe. Poi i tedeschi, gli americani, gli israeliani, i francesi. Le guide, quando arrivano gli ex deportati, avvertono di quel che si va a vedere. Non sono rare le crisi di pianto, i mancamenti davanti alle valige con i nomi stampati sopra, o alla distesa di capelli, o alla piazzetta dove avvenivano le esecuzioni "esemplari". Non solo tra i vecchi sopravvissuti, sono sopraffatti anche i più giovani, e capita che sia un'anziana con il numero tatuato a confortare una studentessa. C'è chi sostiene che l'idea di fare di Auschwitz un museo a imperitura memoria fu degli stessi deportati, già quand'erano dentro l'inferno. Fu dapprima il luogo della martirologìa polacca "e degli altri popoli", come stabilì la Dieta il 2 luglio del 1947. Poi divenne un simbolo più internazionale e "antifascista" nel corso degli anni '50. Nell'aprile del '67 s'inaugura il monumento e per un'ora parla Josef Cyrankiewitz, ex deportato ed ex primo ministro polacco, senza mai nominare gli ebrei, implicitamente reclutati tra le vittime polacche: anche i 400mila ungheresi, gli olandesi, i tedeschi, gli italiani, i cechi e gli slovacchi, i belgi, i francesi, i greci, i norvegesi. Si era alla vigilia della campagna antisemita del '68, seguita alla Guerra dei Sei Giorni. E ancora negli anni '80 - dopo la memoria costruita dal regime comunista - si affrontarono la memoria cattolica polacca e quella mondiale ebraica: dall'84 un gruppo di carmelitane rompeva il silenzio dei luoghi con la loro preghiera, che agli occhi degli ebrei assumeva i tratti di una "cristianizzazione della Shoah". La memoria di Auschwitz si stava dolorosamente precisando. Oggi, 27 gennaio 2005, parleranno solo tre tra i cinquanta capi di Stato e di governo qui convenuti: nell'ordine, il presidente polacco Kwasniewski, quello russo Putin, quello israeliano Moshe Katsav. Fu per i resistenti polacchi che Auschwitz fu costruito, fu per sterminare gli ebrei che venne prescelto, fu dai russi che fu liberato. La battaglia della memoria, almeno per un momento, pare sopita.
Gianni Marsilli


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