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Unità: «All’estero, non solo soldi in più ma anche la possibilità di crescere»

La testimonianza

30/03/2006
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l'Unità

b.di.g.

Aveva un lavoro sicuro ed anche prestigioso per il suo tipo di formazione. Eppure ha lasciato tutto e se n’è andata all’estero. «Era il lontano 1995», ricorda Angela Me raggiunta al telefono nel suo ufficio di Ginevra, dove lavora come statistica per le Nazioni Unite. Fa rilevazioni sociali e demografiche ormai da oltre 10 anni all’estero. Quando è partita aveva 30 anni e in Italia aveva già vinto prima un dottorato e poi un concorso all’Istat. È stata per otto anni a New York e poi è arrivata in Svizzera. Oggi tornerebbe? «No» risponde secca. Per i soldi ? «No, non per i soldi».
Perché è partita?
«Beh, l’opportunità era molto più ampia sia dal punto di vista professionale che dei benefici che assicurava».
Un lavoro più interessante e più redditizio?
«Sì, guadagnavo di più. Ma soprattutto c’era l’opportunità di crescere di più. In Italia è difficilissimo crescere, in termini di carriera e di professionalità. Anche dentro l’Università si cresce poco, e io me ne sono accorta subito».
Il problema è che ci sono troppi «vecchi» che occupano gli spazi a cui aspirano anche i giovani, o mancano nuove iniziative?
«Il fatto è un altro: in Italia non c’è un mercato delle professionalità. Se ho delle potenzialità nessuno le giudica e nessuno punta su quelle per farle crescere. Il lavoro è molto rigido. Nel mondo anglosassone e anche nel sistema delle Nazioni Unite quelli più anziani, che stanno nei posti di comando, sentono il dovere di far crescere i più giovani. In Italia non succede. Per esempio all’Università all’estero c’è la figura dell’advisor, che aiuta l’allievo ad orientarsi, a intraprendere la strada giusta, a non commettere errori».
Ci sono delle differenze tra tipi di selezione in Italia e all’estero ?
«Dal punto di vista scientifico puro non c’è nessuna differenza. Il concorso per entrare all’Istat si basa su un livello di conoscenze molto alto. Ma per lavorare bene servono altre cose: non è sufficiente essere un genio, conoscere a fondo un settore. Nel lavoro conta anche come si gestisce la conoscenza, come si condivide la conoscenza, come si usa la conoscenza per produrre “output” utili alla struttura in cui si lavora».
C’è la possibilità di selezionare anche queste abilità?
«Certo che sì. Io a New York sono stata anche nella commissione d’esame per la selezione. La prova scritta si concentrava sulle conoscenze, ma poi seguivano interviste mirate a verificare proprio questi altri aspetti del lavoro: una presentazione, la capacità di lavorare in gruppo, ecc. ».
In Italia non c’è nulla di questo?
«Macché, non si valuta neanche la capacità di management per chi deve fare il dirigente. Gli italiani che ho incontrato all’estero sono molto bravi, hanno conoscenze molto raffinate, ma non conoscono le cose del mondo, sono tutta teoria e poca pratica, legati troppo alla tradizione e poco all’innovazione».


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