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Una sineddoche fuorviante

di Benedetto Vertecchi

11/07/2013
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Tuttoscuola, XXXVIII, 526, 2012, pp. 22-23

Vorrei richiamare alla memoria dei lettori un passaggio del romanzo Lo schiavo di I. B. Singer. Il protagonista della storia è un giovane ebreo polacco che, per varie traversie, si ritrova ridotto in servitù presso un ricco possidente cristiano. Questi lo invia a pascere i suoi armenti sulle montagne della Slesia. Quel che  turba il giovane è che nella condizione di solitudine che lo attende non potrà assolvere ai suoi doveri religiosi e, soprattutto, non potrà dedicarsi, come aveva fatto fin da bambino, alla lettura della Torah. In tanti anni aveva imparato a memoria il testo sacro, ma non era la stessa cosa recitarne i brani o leggerli. La lettura comportava, infatti, un impegno molto più forte, sollecitando nuove e più consapevoli interpretazioni. Il giovane decide quindi di scrivere la Torah sulle rocce che circondavano il suo rifugio: doveva scrivere il testo sacro per poterlo leggere.

Ho richiamato il romanzo di Singer perché consente di affrontare la questione della tecnologia nell’educazione senza restare subito impigliati nella sineddoche che ha finito per restringerne (e, a mio parere, per mortificarne) il significato. La tecnologia non è, infatti, prioritariamente costituita da macchinario (tanto meno, come generalmente si intende, da macchinario complesso). Il giovane pastore doveva soddisfare un’esigenza culturale, quella di leggere la Torah. Per farlo, aveva bisogno che il testo fosse scritto. La soluzione che individua è un perfetto esempio di tecnologia, ovvero di una soluzione che ottimizza le risorse esistenti per rispondere ad un intento nitidamente definito. Quella soluzione non era certamente l’unica. Se avesse potuto frequentare la sinagoga, non avrebbe avuto bisogno di scrivere la Torah, ricorrendo oltretutto a un supporto inconsueto, perché sarebbe stato sufficiente leggerne il testo a stampa. Ne deriva che la tecnologia serve a trovare soluzioni per problemi reali, e non per sostituire ciò che già esiste con apparati strumentali complessi. Semmai, le nuove opportunità possono aggiungersi a quelle di cui già si dispone, per allargare l’orizzonte dell’educazione.

Oggi chi voglia presentarsi come innovatore in campo educativo è sufficiente che bruci alcuni rituali granelli d’incenso sull’altare della tecnologia (intesa in conformità alla sineddoche restrittiva prima richiamata). È quel che sta avvenendo nel sistema scolastico italiano, poverissimo d’idee, ma al quale si prospettano, un giorno dopo l’altro, scenari innovativi tramite il ricorso alle nuove risorse tecnologiche. In assenza di una politica scolastica, e in una situazione economica certamente difficile, si lascia intendere che molte spese sono superflue, e che non c’è un particolare bisogno d’investimenti, poiché i cambiamenti necessari per rinnovare le pratiche educative deriveranno, con certezza, dalle nuove apparecchiature che saranno poste a disposizione. Il messaggio implicito è che la scuola può realizzare risparmi consistenti e migliorare la qualità dei livelli di apprendimento degli allievi investendo somme abbastanza modeste per acquisire uno strumentario tecnologico, mentre sarebbero necessarie risorse ben più consistenti se per adeguare le pratiche educative alle nuove esigenze si dovesse rivedere l’organizzazione del sistema scolastico, modificare i profili professionali degli insegnanti, fornire alle scuole le dotazioni e gli spazi necessari per consentire agli allievi di compiere esperienze capaci di collegare l’apprendimento con l’azione.

Ridurre, come si sta facendo, la modernizzazione del sistema educativo alla sola disponibilità nelle scuole di strumentazione tecnologica ha come effetto già verificabile l’impoverimento delle risorse per la didattica. Del resto, un conto è avere a disposizione un’apparecchiatura, un conto farne un uso appropriato e tale da giustificare l’investimento effettuato, specialmente se si considera che lo strumentario tecnologico è soggetto ad un rapido invecchiamento. Un computer, un tablet o una lavagna multimediale dopo un paio d’anni sono considerati dagli allievi che dovrebbero usarli reperti archeologici. E non potrebbero pensare altrimenti, considerando che in molti casi dispongono in famiglia di strumenti che, per lo meno sul piano merceologico, sono più aggiornati di quelli il cui uso è proposto nelle scuole.

Torna a manifestarsi una tendenza alle contrapposizioni distruttive che è propria di modelli educativi incapaci di realizzare un’accumulazione conoscitiva che valorizzi le esperienze del passato e le integri con quanto di nuovo emerge dalla ricerca e dallo sviluppo di progetti sperimentali. È già accaduto che proposte inconsuete abbiano condotto all’arroccamento su opposte sponde di sostenitori e detrattori: basti pensare alla contrapposizione tra permissivismo e rigorismo o alle polemiche sui modi della valutazione e sull’uso dei libri di testo. In altre parole, non ci si chiede se per effetto delle nuove proposte possa realizzarsi un incremento delle opportunità di educazione, ma solo se sia o non sia opportuno sostituire una linea di comportamenti educativi che, per qualche motivo, non soddisfi con un’altra, del tutto diversa. Ne consegue una perdita di spessore delle interpretazioni educative, che finiscono con l’essere soggette a suggestioni di senso comune, quando non alla moda del momento.

L’enfasi che si sta ponendo sull’utilizzazione della tecnologia nell’attività educativa rischia di far passare in secondo piano proprio l’apporto di innovazione che si potrebbe attendere dalla disponibilità di mezzi che stanno facilitando enormemente adempimenti che fino a non molto tempo fa richiedevano di effettuare operazioni lente e ripetitive. Il senso comune non rileva gli aspetti meno evidenti, ma più sostanziali, dell’innovazione tecnologica e si limita a considerare la possibilità di sostituire, per analogia o per imitazione, situazioni e comportamenti consueti. La tecnologia finisce con l’assumere una funzione di protagonista, alla quale gli insegnanti dovrebbero adeguarsi. Ma sarebbe come considerare, nel passaggio del romanzo di Singer, più importante lo strumento utilizzato per scrivere del testo della Torah che il giovane ebreo aveva bisogno di leggere. Non solo. Il passaggio che abbiamo richiamato contiene un’implicazione di grande rilievo, sul piano culturale e, più ampiamente, su quello educativo. Il pastore, scrivendo il testo sulle rocce, dimostrava di possedere un’autonomia che non sarebbe emersa nelle condizioni consuete. Certo, questo non significa che le condizioni descritte da Singer fossero quelle preferibili, ma sta comunque a indicare che da un punto di vista educativo sono valide le soluzioni che non diminuiscono, nell’immediato o in tempi lunghi, la possibilità di individuare soluzioni per problemi inconsueti.

Per quanto scarsi siano i riferimenti conoscitivi, si ha l’impressione che bambini e ragazzi che nel loro sviluppo abbiano fruito più ampiamente di apparecchiature tecnologiche non abbiamo tratto solo vantaggi da tale condizione. Non ci si pongono, ed è un segno del livello scadente delle interpretazioni educative, questioni che potrebbero spingere in una direzione o in un’altra le scelte delle scuole. Si prospetta lo scenario di una scuola senza carta, ma non ci si chiede se la crescita di autonomia derivante dalla capacità degli allievi di formulare un pensiero di qualche complessità senza essere dipendenti dalla disponibilità di apparecchiature tecniche sia un obiettivo che debba essere perseguito e, se possibile, potenziato. Si finisce col confondere la dotazione fisica con l’intento dell’educazione.


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