Una occasione straordinaria per modernizzare l’università
Gli atenei sono la destinazione ideale dei fondi del recovery plan, ma serve più autonomia
Gianni Toniolo
Il grande linguista Tullio De Mauro diceva che il maggiore crimine delle élite italiane dall’Unità a oggi è l’avere trascurato l’istruzione. Nella colpevole ignavia, De Mauro accumunava alle élite politiche quelle imprenditoriali, sindacali, professionali, burocratiche, religiose e intellettuali. Ignavia autolesionista, peraltro, perché come può prosperare un Paese nel quale solo il 20% della popolazione è in grado di leggere un grafico?
Questo severo giudizio vale anche per il segmento apicale del sistema scolastico, quello universitario, se è vero che solo il 27% degli italiani tra i 30 e i 34 anni ha completato almeno un ciclo universitario, contro il 41% della media europea, se gli stranieri che insegnano da noi si stimano attorno al 2% del corpo docente mentre gli italiani che lavorano in università estere sono molte migliaia.
La crisi che stiamo attraversando offre una straordinaria occasione di rinnovamento per le nostre università. Il fondo europeo per il rilancio e la resilienza è stato chiamato Next generation Eu (Europa della prossima generazione). Quale modo migliore di rilanciare subito l’economia italiana, migliorando al tempo stesso le prospettive delle prossime generazioni, che investire nell’università una parte rilevante di quel fondo? Quasi tutti gli atenei hanno bisogno di maggiori spazi per laboratori e studi dei docenti, per biblioteche, mense, impianti sportivi e, soprattutto, residenze studentesche. Nel programma di utilizzo dei fondi in arrivo, il governo dovrebbe indicare in questi interventi una delle proprie priorità. L’industria delle costruzioni è tra quelle con maggiore capacità di moltiplicare redditi e occupazione: gli investimenti degli atenei contribuirebbero sia alla ripresa immediata sia alla crescita della produttività nel lungo periodo. Investimenti, anche essi necessari, in attrezzature di laboratorio, aule informatiche, sistemi operativi complessi, attiverebbero occupazione di elevata qualità.
I fondi europei potranno però essere usati solo per investimenti, in un arco di tempo relativamente breve. Daranno una spinta, un primo shock positivo, ma da soli non risolveranno i problemi di funzionamento e competitività degli atenei. Essi vanno risolti in altro modo. Il cosiddetto Rapporto Colao (Iniziative per il rilancio Italia 2020-22) rileva correttamente che le principali debolezze delle università italiane rispetto a quelle di altri Paesi sono di carattere istituzionale: sistemi di governo inadeguati, scarso livello di compartecipazione pubblico-privato, regole di reclutamento, valutazione delle carriere, organizzazione della ricerca e dei dottorati lontane dalle migliori pratiche internazionali. Il rapporto non fornisce però suggerimenti su come rimuovere questi ostacoli allo sviluppo dei nostri atenei.
Se la debolezza delle università italiane, rispetto a quelle della maggior parte degli altri Paesi, è di carattere istituzionale, la chiave di volta del rilancio si chiama maggiore autonomia degli atenei. In tutti i Paesi dove le università funzionano bene, esse sono libere nell’assunzione del personale docente e non docente, nelle remunerazioni, nella formulazione dei curricula, nei criteri di ammissione degli studenti, in genere nella gestione delle proprie risorse. A ciò corrisponde una piena responsabilità per gli esiti dei propri bilanci.
L’autonomia potrebbe essere attuata trasformando gli atenei in Fondazioni, come suggerimmo anni fa con Nicola Rossi. Non si tratterebbe di “privatizzazione”, ma solo di consentire alle università di funzionare secondo le norme del codice civile invece che del diritto amministrativo. È stato fatto in altri settori si può fare senza scandalo per le università, adeguandone le istituzioni a quelle della maggior parte degli altri Paesi.
Contemporaneamente alla creazione di fondazioni autonome, lo stato dovrebbe allocare tutte le risorse pubbliche destinate all’università solo sulla base di precise valutazioni di qualità scientifica. Il finanziamento agli studenti andrebbe fatto con borse di studio, totali o parziali, che gli studenti possano utilizzare in qualsiasi ateneo al quale fossero ammessi. Una quota non trascurabile di esse dovrebbe essere destinata a studenti stranieri. Il tabù tutto italiano del valore legale dei titoli va superato con seri esami di stato per l’ammissione ad alcune professioni e con concorsi per la pubblica amministrazione in grado di valutare l’attitudine dei candidati a svolgere le specifiche mansioni che saranno loro richieste. In tutti gli altri casi, il valore legale è da tempo, nei fatti, inutile e desueto anche in Italia.
Si creeranno atenei diversi per funzioni e qualità? Non c’è dubbio, ma è una situazione di fatto che sarà aiutata a diventare organicamente più funzionale, come auspicato anche dal rapporto Colao. Non tutti gli atenei avranno una vocazione universalistica, non tutti gestiranno programmi di dottorato. L’autonomia incentiverà le singole università a concentrarsi su quanto sanno fare meglio, nella ricerca e nell’insegnamento, a tutto vantaggio della qualità complessiva del sistema universitario italiano e della sua capacità di rispondere a bisogni didattici e scientifici di persone e aree diverse. Sarà incentivata la mobilità degli studenti, con il suo elevato valore formativo, e dei docenti con il loro impatto sulle comunità locali. Università attraenti, innovative, internazionali, costituiscono in tutto il mondo un importante elemento di vitalità per le città che le ospitano. Con una forte spinta di investimenti una tantum e un nuovo guscio istituzionale questo futuro è alla portata del nostro Paese.