Una nuova architettura per la scuola italiana
Il progetto potrebbe prevedere l’inizio portato in forma stabile a cinque anni; la durata dell’intero ciclo ridotta da 13 a 12 anni; l’innalzamento dell’obbligo, e di riflesso dell’età minima per il lavoro, a 17 anni
Ricardo Franco Levi
Per molti versi sembra di rivedere un vecchio film, lo stesso proiettato tutti gli anni alla riapertura delle scuole, con il grande, ma purtroppo non nuovo, pasticcio nella distribuzione e assegnazione delle cattedre e degli insegnanti. In questo confuso e per tutti — docenti, studenti, famiglie — preoccupante scenario, poca attenzione e interesse ha finito per meritare la notizia, riportata dal Corriere della Sera dello scorso 23 agosto, della decisione del ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca Stefania Giannini di estendere ad altre 60 prime classi l’esperimento dei «licei brevi», cioè della possibilità di ridurre da cinque a quattro gli anni dei licei e degli istituti tecnici e professionali.
È una scelta che va apprezzata perché va nella giusta direzione di mettere i nostri giovani in una condizione di parità rispetto ai tanti loro coetanei europei che, completando in dodici e non in tredici anni il percorso scolastico, godono del preziosissimo vantaggio di un anno nell’accesso all’università e al mondo del lavoro. Per quanto condivisibile e correttamente presentato come una sperimentazione, esso appare, tuttavia, come un intervento sostanzialmente isolato, che avrebbe forza ben diversa se diventasse parte di un disegno organico. Un disegno — proviamo ad immaginarlo — di una nuova, e semplice, «architettura» della scuola italiana che, ad esempio, prevedesse: 1) l’inizio della scuola portato in forma stabile a cinque anni; 2) la durata dell’intero ciclo scolastico ridotta da 13 a 12 anni; 3) l’innalzamento dell’obbligo scolastico, e di riflesso dell’età minima per il lavoro, a 17 anni (5+12).
Consideriamo — e non è che un elenco molto parziale — le grandi questioni (vogliamo chiamarle emergenze?) che l’Italia si trova di fronte: la difficile integrazione degli immigrati, le diseguaglianze, il divario tra Nord e Sud, lo squilibrio tra domanda e offerta nel mercato del lavoro, il ridotto contenuto d’innovazione delle nostre produzioni, la criminalità.Accompagnata e completata con l’iniezione di una massiccia dose di sapere matematico e scientifico nei programmi per tutte le classi e con una specifica attenzione all’istruzione tecnica da coltivare nella sua speciale e modernissima «nobiltà», una scuola così ricostruita permetterebbe di affrontare con spalle ben più robuste le sfide di questa difficile stagione. Aprire l’ombrello protettivo della scuola con un anno di anticipo aiuterebbe a far crescere meglio e senza pericoli i bambini che, in molte regioni, a quell’età stanno per strada e non in un’aula e a facilitare ed accelerare l’integrazione dei figli dei nuovi immigrati.
Contenere ai soli anni da zero a cinque il periodo prescolare agevolerebbe nel contempo l’impegno e l’onere di tutte le istituzioni impegnate nella cura e nell’educazione dei bimbi nell’età cruciale per il loro sviluppo e per il superamento, o quanto meno il contenimento, degli svantaggi che derivano dalla diverse condizioni famigliari ed economiche. Limitare il percorso scolastico a soli dodici anni e — cruciale elemento di civiltà — elevare l’obbligo scolastico (oggi si preferisce parlare di diritto/dovere all’istruzione e alla formazione) e dell’età minima per il lavoro a diciassette anni contribuirebbe non solo ad eliminare, come si è già detto, uno svantaggio dei nostri giovani rispetto ai loro coetanei europei ma anche a facilitare un più vantaggioso rapporto scuola lavoro e, soprattutto, ad alzare il patrimonio di scolarità e di educazione dell’intera popolazione giovanile. Realizzabile senza spese aggiuntive (la diminuzione degli anni complessivi di scuola dovrebbe offrire un margine sufficiente per coprire gli inevitabili oneri di aggiustamento e di investimento) sarebbe un disegno, una prospettiva degna di una classe politica che progetta il futuro del proprio Paese.