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Una lavagna non seleziona un docente

Giorgio Israel

18/12/2012
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Il Messaggero


In queste ore 320.000 candidati affrontano le prove preselettive per il mega-concorso da 11.500 cattedre per la scuola. Solo un candidato su 28 otterrà l’agognata cattedra dopo aver superato tre prove: un test di 50 domande atte ad accertare le capacità logiche, di comprensione del testo, le competenze digitali e linguistiche; un esame scritto; un esame orale. Cosa pensare di questo concorso, il primo dopo tredici anni? Da un lato, come negare l’opportunità di premiare il merito, di legare l’immissione in ruolo a un accertamento serio delle capacità di chi occuperà quei posti? D’altra parte, deve trattarsi di un accertamento “serio”. Qui nascono perplessità per il carattere di questa prova che assomiglia a un esame di guida automobilistica dove il comportamento del conducente deve essere standard, a differenza di quello di un buon insegnante. Di fronte a un numero imponente di candidati è inevitabile una selezione di base, ma è poco credibile che si possano accertare con dei quiz le capacità logiche e di comprensione dei testi dei candidati, e stupiscono certe domande in tema di competenze linguistiche e digitali che rischiano di premiare personaggi adatti a trionfare nei “quiz-show” televisivi. Perché mai un requisito per essere un buon insegnante dovrebbe essere sapere a quale linguaggio appartiene il termine “godet” (un taglio di gonna a forma di campana), sapere che il “nome logico Lpt1” indica la porta parallela di un computer o conoscere la definizione di “home banking”? Mentre si parla tanto di combattere il nozionismo il ministero dell’Istruzione ne propone la peggiore versione, secondo una visione dei test praticata da tempo con esiti pessimi. Un altro genere di perplessità riguarda le politiche di reclutamento del ministero, visto che questo concorso viene dopo varie immissioni in ruolo ope legis. Assisteremo al miracolo che tra due anni, e ogni due anni, venga bandito un concorso? Il mondo dell’istruzione è abituato a sentirsi fare promesse del genere, poi sistematicamente disattese. In ambito universitario fu decretata addirittura trent’anni fa la cadenza biennale dei concorsi. Non se ne fece nulla e in cambio si ebbe una sequenza di provvedimenti disorganici che culminano oggi in una prova di abilitazione nazionale dagli aspetti sconcertanti. Non è strano che un concorso per la scuola dopo 13 anni veda un numero enorme di candidati. Sarebbe un miracolo che il suo espletamento avvenga con un’efficienza tale da rendere possibile il bando di un altro concorso tra due anni. Ma se il miracolo non avverrà, allora questo concorsone verrà ricordato come l’ennesima scelta sbagliata.
D’altra parte, anche la questione dei “diritti acquisiti” e del precariato va affrontata con ragionevolezza e buon senso. Nel vuoto di concorsi e immissioni in ruolo ordinate e fondate su verifiche di merito, si è creato un groviglio di situazioni ambigue in cui si intrecciano aspettative legittime e pretese corporative. C’è chi giustamente, dopo aver insegnato validamente per anni, non accetta di essere messo alla porta, e chi pretende l’assunzione in ruolo su basi inconsistenti e rifiutando ogni verifica di merito. In questo groviglio, il buon senso dice che, da un lato, le immissioni ope legis debbono diventare un ricordo del passato ma, dall’altro, che il meccanismo dei mega-concorsi non è forse il più adatto a venirne fuori.
Quando si prospettò la necessità di delineare un nuovo percorso di formazione degli insegnanti, la scelta della commissione da me coordinata fu di distinguere nettamente tra il problema della formazione – proiettato nel futuro – e quello del reclutamento, intriso di un passato che, per i troppi errori commessi, richiede inevitabili compromessi. A un simile approccio di buon senso doveva accompagnarsi la soluzione di assegnare i posti a cattedra disponibili per metà ai giovani che uscivano dal nuovo percorso del Tfa (Tirocinio formativo attivo) e delle lauree magistrali per l’insegnamento, e per l’altra metà a sanare il precariato con verifiche di merito. Era una linea di compromesso che contemperava due esigenze: il riconoscimento di diritti pregressi, purché fossero basati su meriti effettivi; e l’apertura di uno spazio ai giovani insegnanti, fra cui gli abilitati nella formazione primaria. Non è giusto mortificare chi ha lavorato seriamente e ha tenuto in piedi la baracca della scuola malgrado gli errori di politici e sindacati; ma una scuola che non immetta forze nuove è destinata a morire. Occorreva ragionevolezza, chiamare tutti a qualche sacrificio, senza che i sacrifici fossero da una parte sola. Invece, le lauree magistrali sono state affossate e il progetto del Tfa è stato snaturato e mortificato. È apparso evidente lo scarsissimo interesse per l’immissione di giovani leve e la volontà di introdurre varianti e deroghe che, rispondendo a problematiche di reclutamento pregresse, hanno creato disparità tra gruppi di candidati. Inoltre – e questo è l’aspetto più grave – lo spirito “leggero” e decentrato del progetto è stato eliminato rimettendo al centro il solito dirigismo accentratore del ministero. È una propensione assai poco liberale che si è vista ripetutamente all’opera in più occasioni e che costituisce il vero problema del sistema italiano dell’istruzione.
Il problema della formazione e del reclutamento degli insegnanti nella scuola italiana è talmente complicato da richiedere una poderosa miscela di competenze e di buon senso. Pertanto, non può essere sciolto né con colpi di testa né affidandosi a una burocrazia che crede che gli insegnanti vadano scelti tra chi sa che cos’è un “carter” o un “top level domain”, che coltiva una visione dirigista e “amministrativa” poco interessata agli insegnanti e alla loro formazione e che pensa di poter risolvere tutto dall’alto con la tecnologia, a suon di lavagne interattive multimediali, di tablet e di editoria digitale.


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