Un voto che svela la miseria del governo
Un voto non coincide con una vittoria politica
Benedetto Vecchi
Un voto non coincide con una vittoria politica. Sicuramente il governo di centrodestra griderà alla vittoria, con il coro di chi in tutti questi mesi ha appoggiato il progetto di Mariastella Gelmini, dagli opinion makers come Francesco Giavazzi a quelli che discettano di competività su Il sole 24 ore. Ma saranno parole di circostanza. Devono vedersela con un movimento che ha dimostrato di essere capace di reagire a una campagna mediatica che prima lo ha dipinto come composto da potenziali assassini e poi lo ha coccolato perché ha deciso di scandire una propria agenda politica, all'interno della quale non c'è nessuna rinuncia alla loro indisponibilità. Non va però rimosso il fatto che la volontà del governo Berlusconi di continuare imperterrito sulla sua strada, considerando la presenza politica di questo movimento come un problema di ordine pubblico, farà terra bruciata di qualsiasi mediazione istituzionale.
L'ispiratore del disegno di legge sull'Università, Giulio Tremonti, gongolerà, questo è certo. Gongoleranno anche quei rettori che, da primi della classe, avevano attivato tutti i meccanismi per costituire fondazioni e scuole di eccellenza per attrarre capitali privati ben prima che Mariastella Gelmini chiedesse ai due rami del parlamento l'approvazione al suo disegno di legge. Anche i futuristi di Gianfranco Fini saranno soddisfatti. In fondo, avevano contribuito non poco alla definizione del progetto di trasformazione feudal-aziendalista dell'università. L'ultimo stop istituzionale alla legge potrebbe venire da Giorgio Napolitano, che ha incontrato gli studenti ma ha precisato che quella legge la firmerà se avrà copertura finanziaria e se non sarà in contraddizione con la Costituzione.
Insomma, una vittoria del Governo? Se si rimane ipnotizzati dalla logica parlamentare la risposta è positiva. Ma se si distoglie lo sguardo da quelle stanze dove la democrazia è stata ridotta alla fissazione del prezzo di questo o quel parlamentare per passare da uno schieramento politico all'altro, la risposta è un'altra.
In questi ultimi sette mesi è cresciuto un movimento che ha visto la presa di parola dei ricercatori, sia strutturati che precari. Hanno detto che non ci stanno più a fare lavoro volontario per supplire alle deficienze dell'Università. E hanno affermato la loro indisponibilità a essere strumenti docili nelle mani dei baroni. Gli studenti, dal canto loro, hanno ripreso il destino nelle proprie mani. Hanno detto che al furto del loro futuro non ci stanno. Sono tuttavia riusciti a trasformare la parzialità della loro condizione in un discorso generale. Hanno cioè squarciato il velo su una questione sociale che riguarda tutti. La precarietà infatti non è una condizione riservata a pochi, ma la condizione di chi ha già un lavoro e di chi quel lavoro non lo ha; di chi è a tempo indeterminato e di chi è un «temporaneo».
È dunque la materialità della condizione precaria che scandisce la sua azione. Continueranno a mobilitarsi dentro l'Università, ma hanno dimostrato che hanno una capacità di parlare a tutta la società. Hanno individuato nella crisi lo strumento attraverso il quale questo governo vuole istituzionalizzare nuovi rapporti di forza all'interno della società. Il lavoro deve essere una merce, dicono Giulio Tremonti e Sergio Marchionne. Il linguaggio feroce e di classe di questo governo dice che il welfare state deve funzionare in base alla discrezionalità di qualche istituzione compassionevole. Oppure occorre indebitarsi, con debiti d'onore per acquistare al mercato il diritto allo studio. È questo il velo squarciato dal movimento. È questa la «questione sociale» che il movimento di questi mesi ha posto con forza al centro della discussione pubblica, consapevole che ciò che sta accadendo in Italia non è molto diverso da quello che accade in tutta Europa.
Non c'è dunque nessuna pacificazione all'orizzonte, ma un mondo da cambiare. Costruendo già da adesso le condizioni di una continuità nell'azione, nella costruzione di dati di fatto che rendano l'impossibile l'applicazione della controriforma Gelmini. In fondo, il movimento è un appassionato antidoto a quelle passioni tristi che incitano al rancore e al risentimento. Parla cioè il linguaggio di quella indignazione che li ha messi in rapporto con l'insieme del lavoro. Sono in marcia verso il futuro, perché vogliono cambiare il presente.